9. Polibio

1. La vita

Polibionacque a Megalopoli, in Arcadia, verso il 205 a.C. e, dopo un’istruzione di primo livello, intraprese la carriera politica e militare. Si garantì una posizione di prestigio nella Lega achea, in cui si riconoscevano molte comunità del Peloponneso. Nel 168, i Romani posero fine all’egemonia macedone attraverso la vittoria di Pidna, nelle poleis prevalse il partito filoromano: Polibio e altri esponenti della Lega achea, che avevano tenuto un atteggiamento moderato verso i conquistatori, furono inclusi nel numero di mille prigionieri che avrebbero seguito il vincitore, il console Lucio Emilio Paolo, nel suo trionfo a Roma. Nella capitale, Polibio fece amicizia con Scipione Emiliano ed entrò nella cerchia politica e culturale degli Scipioni, che in quegli anni promuoveva, attraverso il celebre circolo, una tendenza culturale filellenica. L’Emiliano lo elesse consigliere militare e lo portò con sé in varie missioni (penisola iberica, Africa settentrionale, Gallia meridionale); nel 150 a.C. Polibio tornò ad essere uomo libero e nel 146 assistette alla distruzione di Cartagine e a quella di Corinto, due eventi bellici di grande impatto simbolico per il dominio di Roma. Polibio cercò allora di offrire un ultimo servizio alla patria greca costruendo un’immagine più mite dei vincitori romani e cercando di convincere i Greci ad accettare la superiorità militare di Roma. Morì fra il 123 e il 118.

2. Le Storie

2.1. I contenuti

L’opera principale, le Storie, suddivisa in quaranta libri, ci è pervenuta con i primi cinque integri più estratti o brevi stralci degli altri libri, realizzati in età posteriore. L’importanza dell’opera risiede nel fatto che per la prima volta un autore greco trattava non le vicende interne della Grecia, bensì l’affermazione della potenza militare e politica di Roma. Suo obiettivo era fornire una storia contemporanea generale, aperta sugli avvenimenti di Grecia, Asia, Italia e Libia, mantenendo però il punto di vista su Roma. L’attenzione si sofferma essenzialmente sulle azioni politiche e militari, riprendendo dunque il modello storiografico di Tucidide.

Ricollegandosi alla narrazione di Timeo, Polibio partiva dal 264, anno d’inizio dello scontro di Roma con Cartagine, e arrivava fino al 144, due anni dopo la distruzione di Cartagine e Corinto (più una monografia perduta sulla presa di Numanzia del 133). L’autore stesso definisce i libri I-II una prokataskeué, una «preparazione», richiamandosi a Tucidide: vi sono esposti i principi metodologici e l’annuncio della materia dell’opera, seguiti da una sommaria ricostruzione degli anni 264-220. L’argomento dei libri III-V sono i fatti accaduti in Italia e in Grecia fino alla battaglia di Canne (216 a.C.), in cui Roma subì ad opera di Annibale una storica e drammatica sconfitta. Il VI libro prendeva in esame l’assetto istituzionale di Roma, con una descrizione analitica degli ordinamenti statali, divenuta celebre poi per ricostruire l’ideologia politica di Polibio. Nel resto dell’opera (libri VII-XL) la narrazione procedeva con criterio annalistico e l’ambito geo-politico restava quello definito nella prima parte, cioè gli avvenimenti occidentali e orientali.

2.2. La storia pragmatica

In primo luogo, la sua storiografia è “pragmatica” (Polibio stesso la definisce come una πραγματικὴ ἱστορία), cioè rigorosamente volta alla verifica dei fatti (pràgmata). L’indagine degli eventi politici deve essere supportata dalla conoscenza delle tecniche militari, degli aspetti geografici e deve essere fondata su un’analisi comprendente, oltre all’utilizzo delle fonti e all’esame delle testimonianze dirette, lo studio dei documenti d’archivio. Nel XII libro, infatti, Polibio scrive che la “storia pragmaticacomprende tre parti, “delle quali una consiste nello studio diligente dei documenti e delle memorie […], la seconda nelle visite alle città, alle regioni, nell’osservazione diretta delle caratteristiche dei fiumi, dei porti, della natura delle terre e dei mari […], la terza nella conoscenza della politica”.

2.3. La polemica con i predecessori

Numerosi sono i passi che affrontano in modo esplicito la discussione sul metodo storiografico. Il fine della storiografia è indicato nella verità: un’affermazione non scontata, se la confrontiamo con altre concezioni del tempo nei confronti delle quali Polibio polemizza (Duride, Filarco, Timeo). In realtà lo sforzo dello storico di essere oggettivo e imparziale trova ostacolo nella sua passione politica, che si traduce ora in patriottismo, nello spazio spropositato talvolta concesso alle vicende della Grecia, ora in polemica contro altri storici, ora nella tendenza filoromana, dovuta agli stretti rapporti personali con gli Scipioni e all’ammirazione per Roma.

In particolare, nei confronti di Timeo, Polibio ci dice che fosse uno storico inattendibile, che falsificava la verità, che riportava i discorsi e i resoconti come lui riteneva fossero stati scritti, tralasciando la verità storica. Inoltre, secondo Polibio, Timeo, usava un tono polemico perché così preferiva il pubblico, senza preoccuparsi di dare sostanza e prova alle sue critiche.

2.4. Le ragioni dello storico

La concezione della storia è utilitaristica (come quella tucididea); la comprensione della storia è utile infatti all’uomo e, in particolare, alla politica: compito dello storico è cogliere le esperienze significative degli avvenimenti, senza creare diletto. Lo scopo utilitaristico comporta un’ideologia pragmatica, caratterizzata dall’attenzione dello storico rivolta essenzialmente alle vicende politico-militari, alle azioni dei popoli, alle città e alle dinastie regali. La sua indagine si deve avvalere dello studio dettagliato delle fonti e della precisa e diretta esperienza dei dati geografici, politici e militari, in contrapposizione agli storici “da tavolino” come Eforo, Teopompo e Timeo. Si riafferma, inoltre, anche l’idea che oggetto dello storico debba essere un unico grande avvenimento contemporaneo, che permetta una conoscenza diretta e affidabile dei fattori decisivi della storia. Polibio abbraccia, inoltre, la prospettiva della storia universale, che dà conto degli eventi riguardanti tutto l’ecumene (la parte di Terra conosciuta), secondo la forma adottata da Eforo, utilizzando, però, il punto di vista romanocentrico.

2.5. Il VI libro e la teoria delle costituzioni

Nell’excursus sulla costituzione romana e sulle forme di governo (libro VI) sono riconoscibili due teorie di ascendenza greca: quella del mutamento delle forme costituzionali, secondo cui la monarchia degenera in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia e infine la democrazia in oclocrazia; e la teoria della costituzione mista, con un equilibrio garantito attraverso una bilanciata combinazione di elementi monarchici, aristocratici e democratici. Polibio riconosceva nella costituzione di Roma la realizzazione della forma mista e questo fattore contribuiva alla longevità del potere romano: vedeva nei consoli i garanti della componente monarchica, nel Senato quelli della componente aristocratica e nelle assemblee popolari quelli della componente democratica. Polibio abbraccia l’idea dell’ἀνακύκλωσις, il ritorno ciclico delle medesime forme di costituzione, conseguenza del passaggio successivo dall’una all’altra. Alla luce di questo modello generale il governo di Roma appare come un esempio riuscito di costituzione mista, in grado di sopportare i più tumultuosi rovesci di fortuna.

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