Di cosa parleremo
Già alle soglie del 1900 si delinea una decisa opposizione al “positivismo”, corrente filosofica-scientifica considerata insufficiente a costruire una nuova scienza e inadeguata a soddisfare le esigenze conoscitive dell’uomo.
Al positivismo si contestano un astratto ottimismo circa l’immutabilità delle leggi scientifiche e la mancanza di un adeguato riconoscimento dell’opera dell’individuo nella costruzione della scienza.
Contro il determinismo naturalistico positivista, lo spiritualismo contrappone la spontaneità creativa della natura e dello spirito, ed al meccanicismo del positivismo, che intende l’uomo come osservatore sostanzialmente passivo, oppure un uomo libero e consapevolmente attivo.
I principali rappresentanti dello spiritualismo francese sono: Boutroux, Bergson, Blondel, Poincaré.
Un peso veramente notevole nella generale reazione della cultura europea nell’opposizione al positivismo ebbe, poi, il pensiero di Friedrich Nietzsche.
1. Friedrich Nietzsche
Vita e opere
Friedrich Nietzsche (1844-1900) nacque a Röcken (Sassonia), figlio di un pastore protestante, studiò teologia e filologia a Pforta, a Bonn ed a Lipsia.
Non ancora venticinquenne occupò la cattedra di filologia classica all’Università di Basilea e fu amico di R. Wagner e J. Burkhardt. È questo il periodo delle prime grandi opere: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872); le Considerazioni inattuali (1873-76); Umano, troppo umano (1878). Lasciati in seguito l’insegnamento universitario, si stabilì a lungo in Alta Engadina, presso Torino.
A questo periodo appartengono le sue opere mature: Aurora (1881); La gaia scienza (1882); Così parlò Zarathustra (1883- 85); Al di là del bene e del male (1888); Genealogia della morale (1887); Crepuscolo degli idoli (1888). Postume invece uscirono l’Anticristo, Ecce homo e La volontà di potenza (sui frammenti che compongono quest’ultimo testo, profondamente manipolati dalla sorella Elisabeth che li fece pubblicare postumi, si basarono in seguito le più deliranti interpretazioni naziste e antisemita di Nietzsche). Nel 1889, a Torino, fu colto da una profonda crisi psichica, di incerta origine. A seguito di ciò, fu ricoverato in una clinica a Weimar, la stessa in cui morì nel 1900, ormai avvolto nella follia.
Nietzsche critica ogni forma di accettazione della metafisica e dissacra tutti i valori tradizionali a partire dall’etica e ritiene che la vita sia irrazionalità, dolore e distruzione, solo l’arte può offrire all’uomo la forza di trasformare la vita.
Il suo pensiero filosofico costituisce un importante punto di riferimento per numerosi filosofi contemporanei.
Il giovane Nietzsche e la passione per la tragedia. La prima opera importante di Nietzsche, la Nascita della tragedia, costituisce una notevole reinterpretazione del mondo greco centrata sui concetti di apollineo* e dionisiaco* (1).
Si tratta di analizzare due istinti contrastanti, di due forze psicologiche in lotta, di due grandi dimensioni della civiltà e dell’anima greca.
L’apollineo attiene a ciò che tradizionalmente viene attribuito alla “classicità”: ordine, equilibrio, misura, armonie perfezione delle forme e dell’arte figurativa.
Il dionisiaco è invece la dimensione della forza creatrice della musica, del caos, dell’ebbrezza, del mito.
Secondo Nietzsche, la tragedia attica (Eschilo e Sofocle) rappresentò un momento di sintesi tra Apollo e Dioniso, una sospensione della loro originaria ed eterna lotta. La tragedia deriverebbe infatti dal «coro dei Satiri» — cioè da un’antichissima processione svolta in onore di Dioniso — che mirava ad un ritorno dello «stato naturale» dell’uomo, che si manifesta attraverso danze orgiastiche e canti visionari. Per una sorta di reazione all’“invasamento” di questi canti e di danze vennero prodotte forme e immagini «apollinee»: nacque cioè la tragedia come «rappresentazione apollinea di conoscenze e moti dionisiaci».
Tuttavia, questa miracolosa sintesi tra Dioniso e Apollo durò poco: la forma tragica, dopo Eschilo e Sofocle, «morì suicida» perché ad ucciderla fu un altro tragediografo, Euripide. Con quest’ultimo, prevalse il momento “morale” della rappresentazione e, così, andò perduto il lato oscuro e misterioso delle tragedie originarie ed anche il perfetto equilibrio che tra dionisiaco e apollineo (a favore di quest’ultimo) che si era venuto a creare nel periodo attico.
Euripide trasformò il mito in una successione di vicende razionali con fini etici (di cui l’esempio migliore è il dispositivo del deus ex machina, l’intervento divino che dall’esterno che scioglie gli equivoci dell’intreccio e delle contraddizioni dell’opera teatrale).
Dietro il nome di Euripide, Nietzsche identifica in Socrate autentico responsabile della disgregazione della cultura attica. Fu il filosofo ateniese, infatti, ad introdurre nel mondo greco un modello di pensiero razionalistico, nemico del mito e del caos dionisiaco, successivamente ripreso ed intensificato da Platone. È proprio a quest’altro grande padre della filosofia che Nietzsche rivolge la sua critica più spietata: subordinando il mondo sensibile a quello delle idee, Platone ha, infatti, mortificato il corpo e svilito la realtà concreta, concetti poi ripresi anche dal cristianesimo.
(1) Fino ad allora il mondo greco, nelle interpretazioni di Goethe e di Winckelmann, era stato considerato paradigma di equilibrio, armonia e grandezza. Nietzsche sostiene che a questa lettura è sfuggito un elemento essenziale: il dionisiaco che esprime l’animo greco al pari, se non in misura maggiore, dell’apollineo.
Con lo stesso vigore, il filosofo tedesco si scaglia contro il socialismo: come Socrate, Platone e il cristianesimo, anche questa ideologie politica vive e si alimenta su pericolosi e opinabili ideali futuri, negando l’oggi e rinunciando all’immediato. Si tratta di atteggiamenti che, spostando l’azione nel futuro, se non addirittura nell’aldilà, annientano il “qui” e “ora” e che sono le possibilità dell’uomo di affermarsi nel presente.
La critica della cultura e della civiltà occidentale. Nelle opere successive, approfondendo le tesi della Nascita della tragedia, Nietzsche procede ad una radicale critica della cultura e della civiltà occidentali.
La filosofia deve smascherare nei confronti dell’universo concettuale dominante la fede, l’etica e le credenze nella nostra cultura che si ripetono da secoli.
Lo scopo di Nietzsche è svelare le radici del «bisogno metafisico» dell’uomo, cioè della sua necessità di verità, di religiosità “istintive” e non imposte dall’alto. Si tratta sostanzialmente di renderci conto che nel corso della storia siamo stati dominati da un intenso bisogno di protezione e di consolazione a cui progressivamente si sono piegate sia la filosofia che la religione (e per certi versi anche l’arte) di tipico stampo cristiano.
Questo «bisogno di protezione» si è concretizzato anzitutto in una negazione della dimensione più vitale dell’esistenza: in una repressione dell’eros, del dionisiaco, dell’irrazionale, dell’amore per il mondo come ci si presenta.
«Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata, celebra di nuovo la sua riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo», così Nietzsche scrive ne La nascita della tragedia.
A questo stato profondamente negativo che ha segnato la cultura occidentale succube della “Storia” (2) e del “passato” (esaltata dal romanticismo e dall’idealismo), va contrapposto un diverso e più spontaneo impulso conoscitivo.
(2) Per Nietzche gli atteggiamenti errati verso la storia deviano dalla visione della Storia monumentale (che cerca nel passato modelli e maestri) e di quella antiquaria (che studia il passato per dare un fondamento al presente): l’unico atteggiamento da assumere verso la “Soria” è quello “critico” cioè cercare e condannare gli ostacoli che hanno impedito la realizzazione dei valori dell’uomo i cui eccessi hanno turbato gli istinti naturali dei popoli.
Nietzsche parla di un Freigeist («spirito libero») che con la sua volontà è capace di sottrarre la nostra cultura attuale alla lunghissima malattia socratica, in grado di svolgere un’analisi filosofica libera da pregiudizi ed ideologie e che faccia emergere la base esclusivamente umana e terrena d’ogni pretesa spiritualità.
In questo contesto, assume un ruolo di assoluto rilievo la questione della religione, anzi più espressamente il problema del cristianesimo, che costituisce il principale bersaglio della critica di Nietzsche. Si tratta, in particolare, del cristianesimo derivante dalla tradizione ecclesiastica, intriso di elementi platonici derivati a loro volta dal modello socratico dell’endemonismo etico che il giovane Nietzsche aveva già contestato.
Meditazione cristiana e morale del gregge. La meditazione cristiana è responsabile di aver intensificato l’astratta e indimostrabile divisione tra mondo sensibile (umano, terreno) e mondo soprasensibile (divino, ideale), già presente in Platone e di aver portato alla svalutazione del mondo umano rispetto a quello ideale.
La concezione cristiana dell’amore come tensione ultraterrena verso Dio ha prodotto secondo Nietzsche una profonda mortificazione della coscienza individuale, un atteggiamento pessimistico (Shopenauer) e rinunciatario, frutto di uno spirito vendicativo nei confronti dell’esistenza umana intesa come materialità, apertura alle suggestioni del corpo, agli istinti dell’individuo.
Questa visione che ha veicolato durante il cristianesimo una «morale comune da schiavi» e da «perdenti» che fanno della «resa dell’uomo» un titolo di merito.
In uno dei suoi più sconcertanti ultimi libri, la Genealogia della morale (1887), Nietzsche sostiene che la tendenza cristiana al livellamento e all’egualitarismo — che egli con disprezzo definisce «morale del gregge», cioè del conformismo e dell’ipocrisia — abbia costituito una violenza mascherata, espressione di una lunga e mai contrastata «menzogna»: l’etica in genere, e quella cristiana in particolare. La morale religiosa capovolge la vera virtù, che per Nietzsche corrisponde alla forza, alla potenza e al successo.
Questi attacchi alla “chiesa storica” e ai fondamenti etici della nostra tradizione culminano nell’Anticristo (1888), testo in cui si delinea la più intransigente invettiva nietzscheana contro il cristianesimo. In questa radicale denuncia viene, però, risparmiata la figura di Gesù in quanto l’autentico messaggio di Cristo conterrebbe secondo Nietzsche un’idea di accettazione della vita e non di rinuncia ad essa: la «buona novella» altro non sarebbe che una forma di eliminazione della distanza tra Dio e uomo, un’affermazione della falsità dei concetti di colpa e peccato che sono al centro dell’etica cristiana.
La morte di Dio e l’oltreuomo. Proprio a partire dalla critica al “cristianesimo storico” fa il suo ingresso un concetto centrale dell’ultima speculazione nietzscheana, quello di nichilismo, rappresentato dall’esito profondamente negativo cui sono pervenute la cultura e l’etica occidentali sotto l’impulso del cristianesimo.
Tutto il corso della nostra civiltà è stato dominato da un processo per cui la morale stessa — con i suoi dogmi e le sue costrizioni — si è diretta verso la propria autosoppressione. Dio stesso in questo senso per Nietzsche si svela come la «nostra più lunga menzogna». La «morte di Dio» è la fine delle certezze metafisiche derivante dall’impossibilità di postulare (come fa il cristianesimo) una realtà trascendente rispetto a quella terrena: con Nietzsche, cioè, muore Dio come idea della verità razionale e dell’etica metafisica.
Questi sono tutti temi al centro dell’opera Così parlò Zarathustra, un grande poema in prosa in cui appare evidente la parodia letteraria della Bibbia: in esso si racconta del ritorno e della predicazione di Zarathustra (antico profeta iranico) nella sua terra dopo dieci anni di meditazione solitaria su una montagna. Tutta l’opera è volta a stabilire le conseguenze sull’uomo derivanti dalla morte di Dio, del tramonto delle sue certezze metafisiche, dello sgretolamento dell’orizzonte cristiano in cui siamo vissuti per circa due millenni.
La risposta di Nietzsche è che la morte di Dio implica un superamento dell’umanità storica così come si è effettivamente sviluppata: il concetto di superuomo (ma il termine tedesco è über-mensch, che sarebbe meglio tradurre con «oltre-uomo») sta proprio a significare il distacco dal bene e dal male che è la radicale novità di questa concezione rispetto alla visione tradizionale di essere umano. Dice infatti Zarathustra:
«Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? (…) Morti sono tutti gli uomini: ora vogliamo che il superuomo viva! Questa sia un giorno, nel grande meriggio, la nostra ultima volontà!»
Questo “uomo nuovo”, secondo Nietzsche, sarebbe, facendo leva sulla sua volontà ed accettazione del mondo come gli si presenta (amor fati), capace di vivere (o sopravvivere) sopportando la perdita delle certezze nozionali assolute e di oltrepassare il nichilismo. Sarebbe dunque un essere finalmente “vitale”, in grado di vivere una esistenza esclusivamente terrena priva di necessità metafisiche, senza esser costretto a guardare al passato o proiettarsi nel futuro per ritrovare se stesso.
L’eterno ritorno e la volontà di potenza. L’avvento di una nuova umanità per il filosofo Sassone potrà compiersi, però, a patto di uno sforzo per la «trasvalutazione di tutti i valori» che implica una radicale trasformazione della nostra vita, prima tra tutte il tempo. È questo il concetto dell’eterno ritorno, una delle più complesse e contraddittorie articolazioni concettuali dell’ultimo Nietzsche. L’idea dell’«eterno ritorno dell’uguale» aveva già fatto la sua prima comparsa in un aforisma della Gaia scienza:
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione».
L’eterno ritorno è legato alla morte di Dio poiché il Dio che muore è soprattutto il Dio etico dell’escatologia (3) cristiana, della trascendenza che ha spinto a pensare il tempo della nostra vita come scandito linearmente da passato, presente e futuro, e cioè come orientato e indirizzato verso un esito perfetto, realizzabile solo in Cristo.
Ma nell’eterno ritorno si esprime anche l’idea che il superuomo debba poter accettare volontariamente che tutto torni, che cioè possa amare così intensamente la propria esistenza da desiderare di riviverla per sempre, senza alcuna nostalgia metafisica della verità.
A questa forma di accettazione Nietzsche dà il nome di amor fati: il superuomo, cioè, deve essere in grado di accogliere l’esistenza in tutti i suoi aspetti, anche quelli dolorosi e ingiusti per l’affermazione della “vita nella sua totalità”. Il «super uomo» vive immerso solo unicamente suo presente, che costituisce la sua unica eternità.
(3) L’escatologia è la scienza che indaga sul destino finale dell’uomo e dell’Universo.
L’eterno ritorno ci porta poi all’ultimo centro della speculazione nietzscheana, il concetto di volontà di potenza (Wille zur Macht). Giunti finalmente ad un livello in cui si può «dir di sì» alla vita in tutte le sue forme, il soggetto liberato dai dogmi della metafisica può sperimentare se stesso come libero e creativo gioco di forze, di prospettive, di volontà che stimola la sua mente che conferisce un senso alla sua vita.
La «Volontà di potenza» non significa dunque sopraffazione o primato del più forte, come è stata mal interpretata in epoca nazista, ma costituisce solo la volontà di accettare ed interpretare liberamente il mondo, come desiderio, impulso ludico, energia, forza creativa, apertura alle più originale ipotesi conoscitive.
2. Lo spiritualismo
Lo spiritualismo è la dottrina che stabilisce il primato dello spirito sulla materia. Si tratta di una corrente di pensiero attiva specialmente in Francia (ma anche in Italia) a cavallo tra Otto e Novecento, la quale si pone in netta polemica nei confronti del materialismo e del positivismo.
Gli spiritualisti, tra cui Boutroux, Blondel e per molti versi Bergson, rivendicano il carattere soggettivo dell’attività spirituale: lo spirito si manifesta non più come Spirito assoluto, come voleva Hegel, ma prede corpo essenzialmente nel soggetto individuale, nella coscienza del singolo.
La coscienza non si esplica più esclusivamente nel cartesiano “cogito”, ma diviene piuttosto il luogo ove sia valori morali che istanze metafisiche coesistono.
3. Boutroux e la filosofia della contingenza
Émile Boutroux (1845-1921) è stato professore alla Scuola Normale Superiore di Parigi e poi all’università La Sorbona. Ha fatto parte della folta schiera degli spiritualisti francesi, critico e decisamente avversario del determinismo meccanicistico insito nel Positivismo. L’interesse di Boutroux è principalmente rivolto a problemi di carattere epistemologico, legati, cioè, alla filosofia delle scienze consistenti nell’approccio alla conoscenza a posteriori dell’oggetto di ogni scienza alla ricerca dei caratteri differenziali e i principi comuni.
Opere principali: La contingenza delle leggi di natura (1874, 1905) e L’idea della legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanee (1895).
La critica di Boutroux al positivismo è finalizzata al ridimensionamento del valore teoretico della scienza e all’affermazione che la realtà che circonda l’uomo non è omogenea e dominata da soli rapporti di causa ed effetto, bensì contingente ed eterogenea. Da ciò per Boutroux ne deriva che le leggi della scienza hanno solo un valore pratico e non teoretico, sarà invece lo spirito umano ad essere assolutamente superiore alla natura a conferire alla scienza valore teoretico.
Boutroux contesta, dunque, il principio di causalità così caro ai positivisti, ritenendo che ogni effetto non è necessariamente deducibile da una causa, ma presenta sempre un elemento di originalità rispetto ad essa. Ciò perché nell’esperienza scientifica emergono molteplici ordini di realtà (ordine meccanico, fisico, biologico, psicologico, sociologico), ciascuno dotato di una propria autonomia.
Tra le forme e gli accadimenti della natura non vi sono passaggi necessari, ma discontinuità. La realtà, quindi, si presenta stratificata in piani differenti e non derivabili l’uno dall’altro, da qui il rifiuto del principio della rigida causalità a favore della contingenza.
Le leggi scientifiche, non più prodotto di causalità necessaria, non hanno valore teoretico, ma soltanto pratico. Esse, cioè, costituiscono solo semplici schemi mentali, atti a soddisfare l’esigenza dello spirito di possedere un orientamento univoco tra la varietà dei fatti naturali.
Nell’ambito della morale Boutroux non parla di contingenza, bensì di libertà, ossia tendenza verso un ideale di perfezione che, nella sua forma più definita, è Dio.
In conclusione, tutto l’universo è dominato da un principio libero, trascendente, che, però, è contingente nella realtà e libertà nell’uomo che tende ad un ideale di perfezione che è rappresentata da Dio.
La religione deve essere intesa, quindi, uno slancio dello spirito di ciascun individuo oltre i confini della realtà e rappresenta l’aspetto più alto della razionalità umana, posto al di là dell’istinto, dell’egoismo e dell’interesse individuale.
4. Blondel: la filosofia dell’azione
Maggior rappresentante della filosofia dell’azione, Maurice Blondel (18611949), deve l’indirizzo delle sue ricerche al suo maestro Léon Ollé-La Prune.
Ricollegandosi a Pascal, il filosofo francese si contrappone nettamente allo scientismo positivistico. La sua opera più famosa è L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica (1893). Altre opere: Il pensiero, cui seguirono L’essere e gli esseri (1935).
Al centro della filosofia di Blondel c’è la dialettica tra la «volontà volente», ovvero l’atto di volere, e volontà voluta, che rappresenta la sua effettiva realizzazione.
La sua filosofia, definita “dell’azione”, si pone il fondamentale problema del rapporto e del raffronto tra due termini opposti: da un lato tutto ciò che domina e opprime la volontà, dall’altro la volontà di dominare tutto.
Questa contrapposizione determina nell’individuo una insoddisfazione perenne, sia sul piano fisico che morale. Secondo Blondel, infatti, anche il pensiero soffre di questa dialettica tra volontà e sua concretizzazione.
La filosofia non deve limitarsi ad avere come oggetto solo l’«idea» dell’azione, ma deve mettersi al centro dell’azione effettiva con cui il soggetto esprime la sua libertà.
L’azione — che coincide con la totalità dell’uomo ed è al centro e della vita e della filosofia — si presenta essenzialmente come «processo», come sforzo vitale. Ma il problema è come l’individuo, diviso tra ciò che fa senza volere e ciò che vuole senza riuscire a farlo, possa porre nell’azione ciò che, senza averne cognizione, già vi si trova in lui.
In questo consiste quella che Blondel definisce «equazione della volontà», che fa riferimento ad un pensiero puro di un essere trascendente (Dio) già presente nella mente umana, che ci guida e si segue attraverso la “grazia” perché tutto il reale muove da Dio e a Dio tende.
Questo fenomeno viene definito dal filosofo “trascendentismo immanente” che conduce al misticismo.
Il convenzionalismo di Henri Poincaré. Insigne matematico e astronomo francese, Poincaré collega la sua teoria gnoseologica (4) alla prima fase dello sviluppo della geometria non euclidea.
L’assetto moderno della topologia algebrica è dovuto alla sua ricerca.
Poincaré fu il teorizzatore del «convenzionalismo», ossia di quell’indirizzo di pensiero che mantiene una sostanziale diffidenza verso le scienze. Tali sono i postulati della geometria che vengono assunti come assiomi (5) dal momento di nessun sistema può essere costituito su di essi pretendendo di rappresentare effettivamente la realtà fisica.
Le scienze (e il loro studio epistemologico) non rappresenta la vera realtà delle cose: «Quello che la scienza può cogliere non sono le cose stesse, bensì soltanto i rapporti tra le cose; al di fuori di questi rapporti non vi è alcuna realtà conoscibile», e proprio in queste relazioni risiede l’oggettività della scienza.
Le scienze creano delle «convenzioni» comode — e mutevoli di epoca in epoca — affinché l’individuare la società si possa orientare con profitto nel mondo che lo circonda.
Un sistema di convenzioni elaborate con rigore logico è costituito in particolar modo dalle varie geometrie, di cui quella euclidea, resta la più «comoda» per noi.
«Comodità» però non corrisponde a «verità»; il problema della verità della geometria non esiste, esiste quello della comodità: «una geometria non può essere più vera di unaltra; “può solo essere più comoda”. E la geometria euclidea è e resterà sempre la più comoda».
(4) La “gnoseologia” studia la facoltà di conoscere dell’uomo del mondo, dell’anima e di Dio. Essa parte dalla conoscenza dello “spirito” nelle sue forme universali e non, come al contrario l’epistemologia, dalla rappresentazione degli oggetti presenti nel mondo.
(5) L’assioma è una verità, evidente da se stessa, che non può essere dimostrata ma che viene utilizzata per dimostrare altre proposizioni.
5. Henry Bergson: la filosofia dell’intuizione
Vita e opere
Henry Bergson (1859-1941): interpreta il calo di fiducia nel positivismo a tutela sua capacità di abbracciare con la scienza tutto il pensiero filosofico. Brillante matematico, Accademico di Francia e Premio Nobel per la Letteratura (1928). Di famiglie ebrea, conduce i suoi studi alla Scuola Normale Superiore e poi diviene professore di Filosofia al Collège de France. Si rivela progressivamente la figura di spicco della cultura filosofica francese dell’inizio del Novecento, molto apprezzato negli ambienti del suo tempo. Opere principali: Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), L’evoluzione creatrice (1907), L’energia spirituale (1919), Durata e simultaneità (1922), Il pensiero e il movente (1934), Le due fonti della morale e della religione.
La coscienza, il tempo e la memoria. Bergson ha criticato il positivismo partendo dal concetto di tempo inteso come «durata» e vissuto dalla coscienza e non dalla realtà contingente.
Per il positivismo il tempo è una grandezza fisica, matematica, meccanica scandita da singoli movimenti che si susseguono sempre uniformi e privi di qualità interiore riducendo solo a: presente, passato e futuro.
Il filosofo parigino, pur riconoscendo al tempo una durata spaziale, teorizza una durata reale o pura che, per il pensatore transalpino, consiste ne «la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza, l’io si lascia vivere senza stabilire separazioni fra stato e stato. La “durata”, coincide il senso del divenire ed è una successione senza priva distinzioni, una mutua penetrazione e organizzazione di elementi». Essa implica l’insorgere di qualcosa di «nuovo» e di «imprevedibile» e si rivela essere una «creazione continua» priva di schematiche scansioni.
Il tempo inteso come “durata” del tempo è «assoluto» per la coscienza che lo vive: la coscienza infatti «dura»: ciò significa che il nostro tempo interiore non è fatto di singoli momenti che si susseguono, ma è piuttosto un amalgama di stati d’animo che si fondono e si sovrappongono senza un ordine prestabilito.
Ogni stato di coscienza si arricchisca continuamente di «momenti» diversi e che sono in perenne movimento, e attraverso coscienza compiono una «transizione continua».
Per Bergson, inoltre, «coscienza vuol dire memoria», conservazione del passato nel presente e anticipazione dell’avvenire. La coscienza, per usare una metafora cara a Bergson, è come un gomitolo di filo che si arrotola incessantemente:
«La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce […] La nostra personalità, pertanto, germoglia, cresce, matura continuamente. Ciascuno dei suoi momenti è qualcosa di nuovo che si aggiunge a ciò che c’era prima».
(H. Bergson, L’evoluzione creatrice)
Si devono però distinguere due forme di memoria: la memoria dello spirito e la memoria legata ad un «esercizio abituale del corpo», cioè ad una automatica ripetizione di azioni.
La prima, è quella che interessa il filosofo e che, registra come «immaginiricordo» tutti gli avvenimenti della nostra vita a mano a mano che si svolgono; lascia ad ogni «fatto» e a ogni «gesto» il suo posto nel tempo trascorso. Questa memoria non ha fini pratici, ma immagazzina il passato solo per rendere possibile il riconoscimento intellettivo di una percezione, di un’immagine che, depositata nel fondo della coscienza, può in ogni momento riaffiorare. Il cervello è infatti l’organo di raccordo tra la coscienza e la realtà esterna.
Intuizione e intelligenza: metafisica e scienza. Quella bergsoniana è una «filosofia dell’intuizione».
L’“intuizione” è quell’atto mediante cui il soggetto si inserisce nell’interiorità di un oggetto e attua una «coincidenza» con ciò che c’è in esso di unico e di inesprimibile, di assoluto. Essa si distingue:
- dall’intelligenza — strumento proprio della scienza — che opera «rigide» distinzioni e riconduce l’oggetto ad elementi già noti, comuni a più oggetti (conoscenza del relativo) si serve di schemi astratti intuizione;
- dall’istinto, che è la facoltà diretta e immediata che fornisce risposte schematiche alle sollecitazioni esterne della realtà.
L’intuizione è, invece, l’organo che percepisce la metafisica.
Se la conoscenza in generale assume una connotazione pratica e pragmatica, in quanto serve all’azione, «per prendere una decisione, per trarre un vantaggio, per soddisfare un interesse», la filosofia per Bergson deve, al contrario, ricercare una rappresentazione, o meglio un’intuizione unica e semplice, che sia conoscenza «disinteressata» dell’oggetto, incentrata sulla cosa e non sul concetto.
L’evoluzione creatrice. Bergson ha affrontato l’atteggiamento dello slancio vitale in L’evoluzione creatrice, il tentativo di superare il dualismo tra mente e corpo, tra individuo e natura.
Quella bergsoniana è una metafisica in cui la totalità della realtà è posta tutta insieme, come fosse eterna. La realtà, cioè, deve allora essere compresa in termini di evoluzione, di cui Bergson intende individuare l’unitario principio.
Per il filosofo transalpino il mondo è un’armonia «tendenziale», non attuale, in quanto ammette al tempo stesso disarmonie, regressi e accidentalità, e, quindi, include anche eventi contingenti: la sua tesi centrale è che «la vita, sin dalla sua origine, è la continuazione di un solo e medesimo slancio che si è diviso in linee di evoluzione divergenti»: questo è lo slancio vitale (élan vital).
Lo slancio vitale si identifica, dunque, con l’attività creatrice che opera a ogni livello della natura. A partire da un’origine comune tutte le specie viventi tendono a divergere nel corso dello sviluppo. Le due diverse linee di sviluppo sono segnate, rispettivamente, dal prevalere dell’istinto e dell’intelligenza.
Morale e religione. Nel pensiero di Bergson si stabilisce una corrispondenza tra la coscienza e la vita, segnate dal contrasto tra lo slancio vitale — energia e «apertura» — e la materia — stasi e «chiusura» —, e il mondo umano, nel quale si delinea un’antitesi tra le forme aperte e le forme chiuse della società, della morale e della religione.
Caratteristica essenziale delle forme aperte è invece di essere «in movimento», in evoluzione e di accogliere lo slancio originario della vita.
Se la società medioevale era dominata da una morale dell’obbligo, chiusa nell’ignoranza e nel dogmatismo, quella moderna è libera, democratica, fondata sul progresso e su una morale «assoluta», che si rivolge non ad un gruppo sociale, ma all’intera umanità. Qui l’esperienza religiosa si esplica senza mediazioni né dogmi.
6. Lo spiritualismo italiano
Lo sviluppo dello Spiritualismo in Italia si ha in una fase successiva rispetto agli altri paesi europei in cui si diffuse e polemizza sia col
Positivismo che con l’Idealismo. Le figure più prestigiose di questa corrente filosofica sono Martinetti, Varisco, Carabellese.
Piero Martinetti (1872-1943). Autore di Introduzione alla metafisica
(1904); La libertà (1929); Ragione e fede (1934); Gesù Cristo e il Cristianesimo (1936). Martinetti afferma che, da un esame critico di tutte le soluzioni che storicamente sono state date al problema metafisico, se ne trae una visione di ascesa progressiva alla conoscenza del divino. Nell’ascesa verso l’Unità suprema l’ostacolo da vincere è il male, oscura potenza inseparabile dal mondo.
Bernardino Varisco (1850-1935). Autore di Scienza e opinioni (1901); Massimi problemi (1910); Conosci te stesso (1912); Dall’uomo a Dio (1939 opera postuma). Per Varisco la realtà è data da una pluralità di soggetti particolari che sono tutti determinazioni di un Essere universale, cioè di Dio. Varisco sostiene l’ipotesi di un Dio come persona e l’ammette come postulato ingiustificabile.
Pantaleo Carabellese (1877-1948). Autore di Critica del concreto (1921); Il problema teologico come filosofia (1931). Per Carabellese la realtà è fatta di concreti, cioè di unità di soggetto e oggetto. L’oggetto è Dio, unico ed universale.
I soggetti rispetto a Dio sono molteplici (inverso della posizione idealistica).
L’oggetto, unico ed universale, non è «altro» dalla coscienza, bensì immanente; l’«altro» è io. L’alterità non appartiene all’oggetto, bensì ai soggetti, moltplici e individuali.
Il ritorno a Kant e la scuola di Maburgo. Nei primi del Novecento, un gruppo di filosofi riuniti intorno alla scuola di Maburgo ravvivarono, in Germania, l’interesse intorno all’opera di Kant. Tale corrente, i cui principali esponenti furono Hermann Cohen (1842- 1918), Paul Natorp (1854-1924) ed Ernst Cassirer (1874-1924), viene definita come neokantismo o neocriticismo.
Secondo questo approccio, la filosofia è intesa come una sorta di esercizio di consapevolezza critica sulle varie forme del sapere umano; se Cohen e Natorp si concentrano sulle condizioni di possibilità della conoscenza umana, Cassirer spinge più a fondo l’analisi, tentando di fare della filosofia lo strumento di indagine di tutta la cultura umana, compresi i suoi aspetti simbolici, quali i miti, l’arte, la poesia ecc.