1. La genetica classica
I primi studi sulla trasmissione dei caratteri ereditari, indicati attualmente col nome di “genetica”, iniziarono nella seconda metà del XIX secolo con il lavoro di Mendel, il cui merito più grande fu quello di applicare alle proprie ricerche sperimentali gli strumenti della statistica, giungendo a conclusioni corrette sui meccanismi di trasmissione dei caratteri. Per molti anni sono proseguite le ricerche in questo settore, a cui sono stati apportati con tributi significativi da molti altri studiosi. Uno dei punti di svolta è stata l’attribuzione di una realtà fisica ai “fattori” di Mendel: ciò ha portato alla nascita dell’odierna teoria cromosomica dell’ereditarietà.
1.1. Le leggi di Mendel
Mendel ha elaborato le 3 leggi fondamentali.
La prima legge di Mendel ci mette in evidenza il fatto che esistano alcuni alleli, che si manifestano sovrastando altri alleli (altre caratteristiche) ovvero mostrano caratteri di dominanza.
Gli allelli dominanti sono quegli allelli che si manifestano sempre nel fenotipo a prescindere dal genotipo di appartenenza.
Col suo esperimento aveva visto che nell’incrociare due linee pure (omozigoti) di una pianta (posso avere una linea pura per un carattere dominante, una linea pura per un carattere recessivo: seme liscio o seme rugoso), nella prima generazione figliale F1 ha ottenuto 100% esemplari con seme liscio. E quindi questo carattere si era manifestato sovrastando il carattere recessivo, dove per recessivo intendiamo un carattere ovvero un allele subordinato .
Per convenzione il carattere dominante viene descritto con la lettera maiuscola, mentre il carattere recessivo con la lettera minuscola.
Mendel quindi arrivó a stabilire innanzitutto che per ogni carattere esistono due diverse unità, ovvero due alleli.
Oggigiorno noi sappiamo che nell’ambito delle caratteristiche genetiche di un individuo, i cromosomi viaggiano a coppie.
Se prendo un cariotipo con tutte le caratteristiche di quel cariotipo, i cromosomi che hanno forme diverse: li posso raccordare a coppie di cromosomi omologhi. I cromosomi omologhi sono quei cromosomi che hanno morfologia e caratteristiche simili perché ci sono stati donati uno dal padre e uno dalla madre al momento del concepimento. Noi siamo da un certo punto di vista un mix genetico di padre e madre che ci trasmettono i loro alleli presenti all’interno dei cromosomi omologhi. Quindi su ogni cromosoma esisterà un allele specifico per quel determinato gene. Gli alleli quindi non sono nient’altro che forme alternative dello stesso gene.
Un gene è una sequenza nucleotidica che codifica per una determinata proteina, ma le caratteristiche di quella proteina sono date dagli alleli perché sui cromosomi omologhi noi possiamo avere alleli uguali (quindi essere in condizioni di omozigosi) ma anche alleli un po’ diversi e la diversità dell’allele può anche essere semplicemente una mutazione (una sostituzione nucleotidica, la differenza di una base/un nucleotide mi da un allele diverso).
I genitori trasmettendo singoli cromosomi omologhi, trasmettono singoli alleli.
Alleli che posso mappare in modo geografico all’interno dei cromosomi, perché gli alleli di un determinato gene cadono sempre all’interno di uno stesso locus genico (cioè una localizzazione geografica ben precisa all’interno del cromosoma).
Su cromosomi diversi ci sono quindi geni con alleli diversi.
In condizioni di omozigosi abbiamo due coppie identiche dello stesso allele, e questo allele potrà essere un allele dominante, quindi due coppie identiche e quindi avere un omozigote dominante oppure un omozigote recessivo.
Nei casi di eterozigosi abbiamo 2 diversi alleli per lo stesso gene.
La seconda legge di Mendel è una prosecuzione di ciò che lui aveva scoperto nella prima legge. Quindi con la seconda legge di Mendel lui ha messo in evidenza semplicemente prendendo quello che era stato il risultato del suo primo esperimento.
Lui era partito nel suo esperimento iniziale da due linee pure (da due omozigoti AA e aa, uno era semi liscio e un altro semi rugosi). Ha visto come nella prima generazione aveva ottenuto solo eterozigoti.
Qual è la frequenza del genotipo omozigote dominante? Statisticamente 1 individuo su 4 quindi il 25%.
Quanti eterozigoti? 2 individui su 4 quindi il 50%.
Genotipo omozigote recessivo 25%.
Se si chiede fenotipicamente qual è la frequenza dei semi di tipo liscio. I semi lisci rispetto ai rugosi (75% liscio e 25% rugoso).
Non c’è quindi una corrispondenza diretta tra fenotipo e genotipo. Le frequenze possono essere diverse perché gli eterozigoti hanno l’allele dominante che dà appunto quel fenotipo simile cioè fenotipo uguale all’omozigote dominante.
SECONDA LEGGE DI MENDEL : Legge della segregazione indipendente degli alleli .
Gli alleli si comportano in modo indipendente. Ogni allele si lega in modo indipendente al altro allele.
Ma se io fenotipicamente ho un fenotipo tipo il dominante che può corrispondere a due diversi genotipi, nel momento in cui ho quel fenotipo ( un topolino di laboratorio di colore nero, colore dominante).
Come faccio a sapere se quel fenotipo corrisponde a un genotipo omozigote o un genotipo eterozigote?
FACCIO UN TESS CROSS: verifico se un individuo con fenotipo dominante ha genotipo omozigote oppure eterozigote.
Incrociandolo con un omozigote recessivo, se questo è dominante mi salta fuori ancora il 100% di fenotipi dominanti.
Se invece è un eterozigote mi salta fuori l’allele recessivo (50% topolini bianchi e 50% topolini neri).
TERZA LEGGE DI MENDEL : legge dell’assortimento indipendente dei caratteri.
Se io ho due diversi caratteri sullo stesso cromosoma, per esempio il carattere A che codifica per la superficie del seme, il carattere B che codifica per colore. Faccio un analisi e guardo come si comportano questi due caratteri. Posso dire che si comportano in modo indipendente i singoli alleli ma anche i singoli sistemi genici cioè i singoli caratteri.
Esempio:
AA con Aa vedo che c’è una ricorrenza di tutti i diversi fenotipi. Questo mi fa capire come A e B siano indipendenti l’uno dall’altro.
Mendel non poteva saperlo ma questa indipendenza è per alcuni aspetti tanto maggiore quanto più sono lontani A e B sullo stesso cromosoma o su cromosomi diversi.
In alcuni casi se A e B sono molto vicini sullo stesso cromosoma possono anche comportarsi in modo non indipendente ma queste sono eccezioni.
Cos è il QUADRATO DI PUNNET ?
È un stratagemma che ci permette di calcolare le frequenze dei genotipi che abbiamo ottenuto. E successivamente le frequenze dei singoli genotipi e anche le frequenze dei fenotipi.

2. La genetica molecolare
La determinazione della natura chimica dei vettori dell’informazione ereditaria è stata frutto di un lavoro lungo, che ha comportato la paziente ricostruzione di una serie di informazioni raccolte in diversi studi.
Allo stesso modo l’elaborazione del modello strutturale del DNA ha richiesto l’impegno di molti ricercatori, le cui conclusioni sono poi state brillantemente rielaborate da Watson e Crick. Le conquiste della genetica molecolare nel corso del Novecento hanno consentito di comprendere moltissimi fenomeni, aprendo la strada ad importanti filoni di ricerca in un gran numero di settori: lo studio delle malattie ereditarie, la possibilità di mettere a punto terapie geniche, la produzione di vaccini o farmaci e, in generale, lo sviluppo delle biotecnologie sono solo alcuni esempi delle vaste e diversificate applicazioni della genetica molecolare.
2.1. Struttura del DNA: modello di Watson e Crick
Nell’elaborare un modello di struttura per il DNA, J.D. Watson e F.Crick partirono anzitutto da un riesame dei dati disponibili fino a quel momento: il DNA risultava essere una molecola lunga e filiforme, di alto peso molecolare, costituita da nucleotidi. L’analisi quantitativa di Chargaff aveva evidenziato l’uguaglianza tra le quantità di adenina e timina e tra quelle di guanina e citosina. Inoltre, gli studi ai raggi X effettuati da R.Franklin e M. Wilkins avevano evidenziato che il DNA possiede la struttura di una grande elica, analogamente a quanto riscontrato da L. Pauling per le molecole proteiche.
Inoltre, la molecola depositaria dell’informazione genetica doveva essere in grado di assumere una varietà di strutture sufficiente a codificare l’enorme quantità di informazioni che i viventi si tramandano, così come, nello stesso tempo, doveva essere dotata di un preciso meccanismo di duplicazione, tale da consentire la trasmissione dell’informazione da una cellula all’altra.
Fu così che Watson e Crick arrivarono ad ipotizzare per il DNA un modello a doppia elica, in cui le strutture portanti corrispondono a filamenti costituiti dall’alternanza di unità di zucchero e di un gruppo fosfato.
Alle unità di zucchero sono legate le basi azotate, che nella doppia elica si accoppiano come a formare i pioli di una scala a chiocciola.

I due studiosi, costruendo un modello in ferro e stagno del DNA, si resero conto che gli accoppiamenti tra le basi azotate non potevano essere casuali, ma dovevano avvenire sempre tra adenina e timina e tra guanina e citosina, in modo da mantenere una distanza costante tra i due filamenti, come evidenziato dagli studi di R. Franklin.
Tale distanza sarebbe stata superata se l’accoppiamento fosse avvenuto tra due purine e non sarebbe stata raggiunta dall’accoppiamento di due pirimidine.
Chargaff. I due filamenti dell’elica sono quindi complementari, in quanto dalla struttura di uno è possibile dedurre quella dell’altro. Inoltre, poiché ogni gruppo fosfato è legato da un lato con il carbonio 5 di uno zucchero e dall’altro con il carbonio 3 di un altro zucchero, in ogni filamento si può distinguere un’estremità 5ʹ e una 3ʹ. I due filamenti della doppia elica si dicono antiparalleli perché corrono in senso inverso, uno dal 5ʹ al 3ʹ e l’altro dal 3ʹ al 5ʹ.
Una catena di DNA può arrivare a contenere migliaia di basi azotate e l’enorme varietà delle sequenze di basi possibili consente di avere quella varietà di strutture che si riteneva indispensabile per la molecola depositaria dell’informazione ereditaria.
2.2. Duplicazione del DNA
La struttura a doppia elica descritta nel paragrafo precedente rende conto anche di come la molecola di DNA possa produrre facilmente e precisamente una copia di sé stessa.
La duplicazione del DNA rappresenta l’evento portante della duplicazione dei cromosomi, attraverso il quale da una molecola di DNA se ne producono due identiche a quella di partenza.
Il processo è semiconservativo perché al momento della duplicazione le basi azotate si separano determinando l’apertura della doppia elica ed ogni filamento funziona da stampo per la costruzione di un nuovo filamento. In tal modo ciascuna delle due molecole di DNA prodotte possiede un filamento della molecola originaria e uno di nuova sintesi.
Sotto il profilo biochimico il meccanismo di duplicazione è molto complesso e chiama in causa un gran numero di enzimi. La duplicazione prende sempre avvio da una sequenza specifica di nucleotidi, detta punto di origine della duplicazione, in cui proteine di attivazione spezzano i legami idrogeno tra le basi azotate.
Nel cromosoma procariote vi è un unico punto d’inizio e la duplicazione si completa in seguito all’allargamento di un’unica bolla. Nei cromosomi degli eucarioti, invece, ci sono numerosi punti d’inizio e ogni bolla si ingrandisce progressivamente fino a fondersi con quelle adiacenti.
La sintesi del nuovo filamento ha luogo sotto il controllo dell’enzima DNA-polimerasi, che, muovendosi lungo il filamento stampo, aggiunge al nuovo filamento un nucleotide per volta. L’enzima è dotato di un sistema di correzione di lettura che gli consente di addizionare nucleotidi al nuovo filamento solo se tutte le basi azotate precedenti sono correttamente accoppiate. In caso di errore la DNA-polimerasi inverte il proprio senso di marcia sul filamento stampo per correggere l’errore. Ciò assicura una precisa duplicazione della molecola, sottoposta all’ulteriore controllo di enzimi riparatori in grado di tagliare la doppia elica là dove ci sono errori e di sostituire i nucleotidi errati con quelli corretti.

2.3. La sintesi proteica
Dopo aver stabilito che il DNA costituisce la molecola depositaria dell’informazione ereditaria e una volta determinata la sua struttura, restava da capire in che modo l’informazione fosse codificata al suo interno e come potesse essere trasmessa.
La stretta relazione tra il DNA di un organismo e le proteine che questo produce era stata messa in evidenza più volte.
Rna messaggero e processo di trascrizione
Le ricerche sulle modalità di traduzione dell’informazione codificata nel DNA condussero alla scoperta di un altro acido nucleico, l’RNA o acido ribonucleico,particolarmente abbondante nelle cellule che producono
grandi quantità di proteine, quindi ricche di ribosomi, di cui l’RNA è il costituente principale. Tale molecola sembrava essere un intermedio nel processo di sintesi delle proteine a partire dal DNA: infatti, quando un batteriofago infetta una cellula batterica prima che inizi la sintesi delle proteine virali, ha luogo la sintesi di RNA.
Nella cellula se ne distinguono diverse tipologie:
- RNA messaggero (m-RNA);
- RNA ribosomiale (r-RNA);
- RNA di trasporto (t-RNA).
L’RNA messaggero è la trascrizione di un tratto di DNA che viene copiata da uno dei due filamenti: analogamente a quanto accade durante la duplicazione, i nucleotidi, presenti nella cellula in forma di trifosfati, si accoppiano con basi azotate complementari della catena di DNA e l’enzima RNA-polimerasi ne catalizza la condensazione. Nel processo di trascrizione, all’adenina del DNA corrisponde l’uracile nell’RNA, mentre alla timina del DNA corrisponde l’adenina nell’RNA.

La sintesi delle molecole di m-RNA avviene a partire da specifiche sequenze di nucleotidi dette promotori (che costituiscono siti di legame per l’RNA-polimerasi) e termina in corrispondenza delle cosiddette sequenze di terminazione.
La traduzione
Giunti a questo punto restava da comprendere come il DNA e l’RNA, costituiti dal concatenamento di quattro tipi di nucleotidi diversi, potessero codificare le informazioni necessarie alla sintesi di catene proteiche, costituite dal concatenamento di 20 tipi diversi di amminoacidi.
Evidentemente doveva esistere una corrispondenza tra una sequenza di nucleotidi e i singoli amminoacidi: supponendo che ogni amminoacido fosse codificato da una coppia di nucleotidi, le quattro basi azotate avrebbero prodotto solo 4 4 = 16 combinazioni, insufficienti a codificare per i 20 amminoacidi. L’ipotesi più semplice, rivelatasi poi quella corretta, era che i nucleotidi necessari a codificare il singolo amminoacido fossero tre e in tal caso il numero di combinazioni sarebbe stato 4 4 4 = 64, numero più che sufficiente a codificare per 20 amminoacidi.
Procedendo in questo modo e utilizzando molecole di RNA con sequenze di nucleotidi ripetute, fu possibile pervenire alla completa decifrazione del codice genetico.
Delle 64 triplette possibili, dette codoni, solo tre risultano non codificanti e vengono indicate come triplette di stop; le altre 61, invece, codificano per i 20 amminoacidi, a ciascuno dei quali corrispondono più triplette, spesso differenti fra loro per l’ultimo nucleotide.

Una scoperta importante quanto la decifrazione del codice genetico è stata la constatazione della sua universalità: il codice, infatti, risulta essere lo stesso per tutti i viventi, dai procarioti all’essere umano. Questa è ritenuta una prova convincente del fatto che tutti gli esseri viventi si sono evoluti a partire da un antenato comune.
L’RNA ribosomiale è il costituente principale dei ribosomi, organuli preposti alla sintesi delle proteine. Ogni ribosoma è formato da due subunità, una più piccola, dotata del sito di legame per l’m-RNA, e una più grande, dotata di due siti di legame per gli RNA di trasporto. L’RNA di trasporto è la molecola che opera la traduzione del messaggio codificato nell’m-RNA, consentendo la formazione della catena polipeptidica corrispondente.
Nella cellula esistono almeno 20 molecole diverse di t-RNA, tutte dotate della caratteristica forma a trifoglio: l’estremità 3ʹ, caratterizzata dalla tripletta ACC, costituisce il sito di legame per l’amminoacido, mentre dalla parte opposta si trova una tripletta di basi, l’anticodone, attraverso la quale il t-RNA si lega al codone complementare posto sull’RNA messaggero.

Vi è poi una regione in cui si trova il sito di riconoscimento dell’enzima amminoacil-tRNA-sintetasi. Questi enzimi assicurano che ogni molecola di t-RNA si leghi a uno specifico amminoacido.
La traduzione, ossia il processo attraverso il quale dal filamento di m-RNA si arriva alla sintesi della proteina corrispondente. La prima fase del processo vede la formazione del cosiddetto complesso d’inizio, costituito dal legame tra l’unità più piccola del ribosoma, l’estremità 5ʹ dell’m-RNA (di cui viene esposto il primo codone) e il primo t-RNA, che si appaia con questo.

Il ribosoma si sposta lungo l’m-RNA, liberando il primo t- RNA, mentre il secondo t-RNA va ad occupare il sito P, liberando il sito A, davanti al quale viene a trovarsi il terzo codone della catena dell’m-RNA. Su di esso si inserisce il terzo t-RNA con l’anticodone complementare, cosicché si forma il legame peptidico tra il dipeptide legato al sito P e l’amminoacido legato al sito A. Il processo va avanti in questo modo fin quando, scorrendo lungo l’m- RNA, il ribosoma incontra una sequenza di terminazione, cioè un codone di stop. A questo punto la traduzione si interrompe, la catena polipeptidica viene liberata e le due subunità ribosomiali si separano.
Accade spesso che mentre un ribosoma procede lungo il filamento di m-RNA, un secondo ribosoma si lega all’estremità iniziale, avviando a sua volta la traduzione: simili complessi, in cui uno stesso filamento di m-RNA viene letto contemporaneamente da più ribosomi, sono detti polisomi e permettono la sintesi di più molecole proteiche contemporaneamente a partire dalla stessa molecola di RNA.
Le mutazioni
È ormai accertato che alcune malattie genetiche sono determinate dall’alterazione o dalla perdita di funzione di molecole proteiche.
Si dicono mutazioni puntuali quelle che riguardano il singolo nucleotide.
Il risultato di un tale tipo di mutazione può essere la sostituzione di un amminoacido con un altro, come nel caso dell’anemia falciforme, con conseguente cambiamento morfologico e funzionale della proteina. In tal caso si parla di mutazioni di senso. Se invece la mutazione puntuale porta alla sostituzione del codone originario con un codone di stop, la proteina non viene sintetizzata e allora si parla di mutazione non senso. Oltre alla sostituzione di un nucleotide con un altro possono verificarsi casi di delezione o di inserzione di nucleotidi in un gene che hanno come conseguenza uno spostamento del sistema di lettura. Cambiando il modo in cui i nucleotidi vengono raggruppati in triplette, la proteina prodotta può essere del tutto nuova e completamente priva di funzione.
Le mutazioni si originano in modo assolutamente casuale, indotte da fattori esterni come raggi X, raggi ultravioletti, sostanze radioattive ecc.
Quelle che hanno luogo nelle cellule somatiche si trasmettono alle cellule figlie prodotte per mitosi, mentre quelle che si verificano nei gameti vengono trasmesse alle generazioni successive. Gli alleli diversi di uno stesso gene si originano da mutazioni spontanee: l’allele dominante nell’eterozigote produce normalmente una quantità di proteina tale da compensare l’allele difettoso o recessivo, fenomeno indicato in genetica classica come dominanza.
3. Regolazione dell’espressione genica
La scoperta della struttura del DNA e dei meccanismi di traduzione del codice genetico ha aperto la strada a programmi ambiziosi, basati sull’idea che la conoscenza del patrimonio genetico di un individuo possa portare alla completa comprensione e definizione della sua identità. Purtroppo, la semplice conoscenza del patrimonio genetico non dice molto sull’individuo, in quanto ciò che effettivamente ne determina l’identità è l’espressione genica e il DNA umano viene espresso solo per l’1%. In questo capitolo verranno analizzati alcuni dei meccanismi di regolazione genica attualmente noti, con la consapevolezza, però, che in questo campo la strada da percorrere è ancora lunga.
Regolazione dell’espressione genica nei procarioti
Nonostante che il codice genetico sia comune a tutti gli organismi, di qualunque grado di complessità, esistono enormi differenze riguardo ai meccanismi di regolazione dell’espressione genica.
Il cromosoma procariote, in particolare, è costituito da un’unica, grande molecola circolare di DNA, che, srotolata, raggiunge dimensioni lineari ben superiori a quelle dell’intera cellula. Nel DNA vengono conservate tutte le informazioni utili per la produzione di proteine ed enzimi necessari alla vita e al metabolismo della cellula ed ogni segmento che codifichi per una proteina è detto gene strutturale.
Di solito nel cromosoma procariote geni strutturali che codificano per proteine aventi funzioni correlate, come ad esempio gli enzimi di una stessa sequenza biochimica, si trovano raggruppati e spesso vengono trascritti in un unico filamento di m-RNA, in modo che le proteine di cui la cellula necessita contemporaneamente e in uguali quantità possano essere prodotte tutte insieme.
Tuttavia, la cellula produce enzimi e proteine codificate nel suo DNA solo in caso di necessità. Evidentemente nella cellula esistono sistemi in grado di attivare o disattivare la trascrizione e la traduzione dei geni strutturali a seconda delle esigenze momentanee, ossia in rapporto al tipo di ambiente, alla presenza o assenza di alcuni nutrienti etc. In tal modo la cellula non impegna inutilmente energia per produrre sostanze di cui non ha bisogno.
Nei procarioti la regolazione della sintesi proteica avviene essenzialmente a livello della trascrizione, secondo un meccanismo esplicato dal cosiddetto modello dell’operone. La trascrizione di un tratto di DNA inizia in seguito all’adesione della RNA-polimerasi a una sequenza specifica del DNA, detta promotore. Di qui, scorrendo lungo il DNA, la RNA- polimerasi copia un tratto che codifica per uno o più geni strutturali, fino ad incontrare una sequenza di terminazione. Secondo la teoria dell’operone, tra il promotore e i geni strutturali si trova una sequenza, detta operatore, alla quale pu legarsi una proteina, a sua volta codificata da un gene regolatore, denominata repressore. Legandosi all’operatore, il repressore impedisce lo scorrimento dell’RNA-polimerasi lungo il DNA o addirittura ne evita il legame con il promotore, bloccando la trascrizione del gene strutturale.
Il legame del repressore con l’operatore dipende dalla presenza di altre molecole, indicate come corepressori o induttori: i primi attivano il repressore, consentendogli di legarsi all’operatore; i secondi lo disattivano, impedendone il legame con l’operatore.

Regolazione dell’espressione genica negli eucarioti
La quantità di DNA negli eucarioti è enormemente più grande che nei procarioti, anche se vi sono tantissimi segmenti ripetuti, molti dei quali apparentemente non utilizzati. Inoltre, il DNA negli eucarioti mostra un’organizzazione molto più complessa, essendo strettamente associato a proteine che determinano la struttura del cromosoma, influenzando, di conseguenza, l’espressione genica.
L’associazione di DNA e proteine nel nucleo cellulare è indicata col nome di cromatina , di cui le proteine rappresentano oltre il 50% in peso. La maggior parte di queste è rappresentata da piccoli polipeptidi detti istoni, che svolgono un ruolo fondamentale nel ripiegamento e nell’avvolgimento del DNA. La restante parte delle proteine associate al DNA varia molto da un organismo all’altro ed è costituita di enzimi, proteine di regolazione, molte delle quali ancora sconosciute. Si distinguono cinque tipi di istoni contenuti nel nucleo, quattro dei quali possiedono strutture assai simili anche in organismi sensibilmente diversi e sono presenti in quantità doppia rispetto agli istoni del quinto tipo.
Tali proporzioni risultano facilmente comprensibili esaminando la struttura dell’unità fondamentale della cromatina, il nucleosoma, costituito da una parte centrale, formata da otto molecole istoniche, due per ogni tipo, attorno alle quali è avvolto il DNA, e da una proteina istonica di tipo diverso rispetto a quelle interne, affiancata esternamente.

La cellula eucariote, contrariamente a quella procariote, esprime solo la piccola parte del suo DNA che viene permanentemente attivata nel corso del differenziamento cellulare. Questo processo consente a cellule dotate dello stesso patrimonio genetico, in quanto generate dallo stesso zigote, di differenziarsi, assumendo nell’organismo funzioni completamente diverse.
Numerose prove hanno dimostrato che l’espressione genica è strettamente collegata al grado di condensazione della cromatina.
Colorando il nucleo cellulare, infatti, si possono distinguere zone in cui la cromatina è più densa, dotate di colorazione più accentuata, indicate come eterocromatina, e zone colorate più debolmente, caratterizzate da una maggiore dispersione della cromatina, denominate eucromatina.
Naturalmente il processo di trascrizione e la conseguente espressione di un gene dipendono dal grado di accessibilità del gene stesso, per cui la parte di DNA che ogni cellula esprime è limitata alla porzione di eucromatina.
Inoltre, si è notato che, in seguito al differenziamento, il grado di condensazione di regioni diverse della cromatina varia da una cellula all’altra e il rapporto tra eucromatina ed eterocromatina diminuisce, segno che ogni cellula differenziata esprime solo una piccola, specifica porzione del proprio DNA.
Infine, anche negli eucarioti sono presenti sistemi di regolazione basati su proteine come nei procarioti, sebbene dotati di un maggiore grado di complessità. Infatti, ogni gene è regolato solitamente da più proteine, alcune attivanti, altre disattivanti, i cui siti di legame sono spesso molto lontani dal gene, il che rende la loro individuazione estremamente difficoltosa.