1. Introduzione
La globalizzazione è un fenomeno complesso che interessa moltissime sfere della vita delle persone, e ha determinato nel corso degli anni dei cambiamenti notevoli negli equilibri mondiali come erano conosciuti prima di questo fenomeno. Il mondo contemporaneo viene visto come un “villaggio globale” in cui è come se il pianeta fosse appunto diventato un unico villaggio in cui pochi centri di potere prendono decisioni per tutta la popolazione. Con l’avvento della globalizzazione le relazioni sociali possono essere stabilite a grande distanza, e questo porta con sé vantaggi e svantaggi.
2. La mondializzazione dei mercati
In campo economico questo fenomeno si esplica con la tendenza di mercati ed imprese ad estendere le proprie attività il più possibile, fino a diventare una presenza mondiale. Ovviamente questo determina una serie di tensioni politiche, in quanto tutti i principali centri di potere vorrebbero poter dirigere l’economia in modo tale da favorire i propri interessi e ostacolare quelli della concorrenza.
Alla base di ciò si trova la nuova economia globalizzata, che è caratterizzata da alcuni punti chiave:
- internazionalizzazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei prodotti: ci permette di usufruire, stando in Italia, di beni prodotti o di servizi creati all’estero, anche in paesi molto lontani. Perché ciò accadesse i governi hanno ridotto le tariffe e le regolazioni che vigono in campo di commercio internazionale, e questo ha condotto al cosiddetto “scambio libero”;
- internazionalizzazione dei mercati finanziari: questo comprende la finanza prudente, che opera prestiti a lungo termine, ed il settore degli speculatori, che spostano rapidamente capitali;
- sviluppo di imprese multinazionali: vantano un potere sempre maggiore e possibilità di espandersi a livello mondiale. Esse comprendono filiali e fornitori appartenenti a paesi diversi, e il loro sviluppo permette di trovare condizioni di produzione più vantaggiose, ad esempio per quanto riguarda la pressione sociale ed il costo di produzione;
- centralità della tecnologia, che permette rendere la progettazione, la produzione e la spedizione dei beni prodotti in stock molto più fluida, richiedendo un minore sforzo in termini di manodopera. Anche le strategie di marketing hanno un ruolo rilevante ed il principale mezzo tramite cui si esplicano è la pubblicità, condiziona notevolmente gli acquisti dei soggetti target.
A causa della complessità dell’economia globalizzata sono stati creati alcuni enti che hanno la funzione di regolare gli scambi, come la Banca Mondiale e la World Trade Organization: questo si è reso necessario dal momento che gli stati nazionali risultano insufficienti nella gestione del mercato.
Questo modo di concepire l’economia ha portato ad un fitto intreccio tra le molte potenze che si contendono il potere. Ad esempio, il giornalista britannico Ed Vulliamy ha fatto notare come alcune aziende che sono state istituzioni inglesi per decenni siano ormai acquistabili da parte di chiunque possa permetterselo, perdendo quindi l’identità tradizionalmente British: la Land Rover è oggi indiana, il Chealsea è appartenuto per quasi vent’anni ad un oligarca russo e Harrods è di proprietà di magnati del Qatar.
Esistono una serie di vantaggi e svantaggi che sono conseguenza diretta della mondializzazione dei mercati. Per quanto riguarda i lati positivi:
- l’aumento degli scambi di beni e lavoro, da cui deriva la rapida crescita economica mondiale;
- la riduzione della disoccupazione e quindi l’aumento del benessere in varie aree del mondo.
Tra i lati negativi vanno evidenziati:
- la delocalizzazione: nei Paesi in via di sviluppo esistono norme meno stringenti per le aziende, ad esempio c’è una minore tassazione sui guadagni e una minore regolamentazione in termini di tutela ambientale; inoltre i lavoratori sono spesso sottopagati in quanto abitano appunto in paesi poveri, per cui un impiego anche mal retribuito è un’opportunità per mantenere le proprie famiglie. Queste sono solo due delle motivazioni che spingono le industrie dei Paesi industrializzate a spostare le proprie sedi di produzione in paesi meno abbienti, in modo tale da ricavare il massimo profitto abbattendo i costi di gestione dell’azienda stessa. Il fenomeno è ovviamente molto negativo per il paese che perde le produzioni, in quanto esso perde anche posti di lavoro e competitività; inoltre può essere rischioso trasferire le proprie competenze ad un altro paese, perché c’è il rischio di formare un futuro competitor. La delocalizzazione sembrerebbe essere positiva invece per il paese ricevente la produzione, in quanto determina un aumento della ricchezza e un maggiore benessere della popolazione. In realtà bisogna anche considerare la delocalizzazione spesso accresce il fenomeno dello sfruttamento minorile e del lavoro in condizioni simili alla schiavitù.
- la deindustrializzazione: è una conseguenza diretta della delocalizzazione e può essere definita come la riduzione delle persone occupate nel settore industriale nei Paesi industrializzati. Ovviamente questo è in netto contrasto con l’industrializzazione che si verifica nei Paesi in via di sviluppo.

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3. Le megalopoli delle periferie del mondo
Spesso si parla di aree urbane e metropolitane come se fossero sinonimi, ma indicano due termini diversi:
- un’area urbana è un insieme di costruzioni che formano una città, inclusi i sistemi di trasporto ed i sistemi fognari. Nella maggior parte dei casi l’area urbana si estende oltre i confini della città stessa;
- un’area metropolitana è un’area circostante un’agglomerazione e dipende fortemente dalla città stessa, per cui i rapporti, anche dal punto di vista della rete dei trasporti, sono molto stretti.
Quando delle aree metropolitane si uniscono a formare un’ampia area urbanizzata si ottiene una megalopoli, ovvero un insieme di città che, includendo anche le zone periferiche, crea un complesso urbano di enormi dimensioni. Nel nuovo millennio è molto aumentato lo sviluppo di questo fenomeno, infatti basta pensare che nel 1975 esistevano solo tre megacities, mentre al giorno d’oggi se ne contano più di trenta, ognuna abitata da almeno dieci milioni di abitanti. Esistono delle eccezioni, come nel caso della megalopoli di Tokyo che conta circa 37 milioni di abitanti in un territorio che è tanto esteso quanto la regione Campania. In ogni continente del pianeta sono presenti le megalopoli, ad esempio negli Stati Uniti la megalopoli che si estende da Boston a Washington comprendendo New York, Baltimora e Philadelphia, per una popolazione totale di circa cinquantadue milioni di abitanti. Questa è stata la prima analizzata dallo studioso di geografia Gottmann.
A causa dell’immenso numero di abitanti presenti nelle megalopoli le difficoltà che si incontrano in queste zone, a livello economico, politico, sanitario e sociale, non sono indifferenti, soprattutto se si considerano le megalopoli che sorgono nella “periferia del mondo”, ovvero il global South, che comprende alcune zone di Africa, Asia ed America latina. È facile comprendere perché queste aree estremamente vaste e popolate che sorgono all’interno di nazioni già di per sé molto problematiche risultino essere siano molto complesse da amministrare ed ottimizzare. Alcune delle difficoltà più comunemente riscontrate sono la violenza che si genera dalla povertà, l’inquinamento, il degrado, migliaia di bambini abbandonati alla strada ed il forte disagio in cui vivono queste persone. L’avvento delle megalopoli è in costante crescita, e si calcola che oggi un miliardo di persone viva all’interno di questi agglomerati urbani in condizioni di vita indegne e miserabili; per il futuro si prevede un incremento fino a due miliardi di persone, probabilmente entro il 2030.
La massima espressione del disagio che viene vissuto in queste aree di periferie si ritrova nei cosiddetti “slum”, che in italiano chiameremmo baraccopoli, ovvero un insediamento urbano caratterizzato indubbiamente da sovraffollamento, formato da costruzioni pericolanti e scadenti con accesso inadeguato all’acqua potabile e ai servizi igienici. Lo slum più grosso al mondo sembrerebbe essere quello messicano di Neza-Chalco-Itza, che conta circa quattro milioni di abitanti e dagli anni Sessanta si cerca di implementarne le condizioni attraverso miglioramenti delle fognature e della rete idrica. Segue quello di Kibera, la capitale del Kenya, in cui più della metà dei cittadini vive, senza accesso all’acqua potabile né all’elettricità né ad assistenza medica, se non grazie alle ONG. Altri esempi importanti sono Orangi Town in Pakistan; Manshiet in Egitto (dove esiste uno slum nello slum, in quanto una buona parte della popolazione è di origine sudanese e si è rifugiata a Manshiet in seguito al genocidio di Darfur); Khayelitsha in Sud Africa, nato durante l’epoca delle leggi di segregazione ed espansosi sempre di più. Ancora oggi abitato al 90% da popolazione nera. Ma la lista di slum è molto lunga e comprende anche paesi come Nigeria, Brasile, Haiti ed India.
Oltre che a garantire lo sviluppo economico, le città dovrebbero garantire a più livelli il benessere offrendo livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, assistenza sanitaria, immediato accesso al mondo del lavoro e quindi inclusione sociale. Il rovescio della medaglia è che questa crescita disorganizzata delle città minaccia la sostenibilità dell’urbanizzazione perchè se non saranno potenziate le infrastrutture e se non verranno attuate politiche che incentivino l’uguaglianza sociale, ci sarà un aumento sempre maggiore del divario tra le classi sociali più e meno abbienti e del livello di degrado di queste popolazioni che abitano le baraccopoli. Nonostante le multiple accezioni del termine “periferia”, questo è divenuto sinonimo di esclusione e degrado ambientale.
Diventa fondamentale l’intervento del governo, che dovrebbe tenere conto di tutte le criticità che derivano dallo sviluppo delle megalopoli nelle periferie del mondo: sarebbe fondamentale implementare l’accesso ai servizi sanitari ed igienici; all’acqua potabile e all’elettricità; costruire infrastrutture che possano accogliere un così ampio numero di persone, con lo scopo di ridurre il numero di soggetto che vivono in una condizione di degrado totale.
4. Il multiculturalismo
Tra le varie conseguenze della globalizzazione c’è sicuramente l’intreccio di moltissime culture che nel secolo scorso erano venute raramente a contatto tra di loro. Il fenomeno della migrazione, soprattutto alla ricerca di un lavoro che possa mantenere le proprie famiglie e alla ricerca di condizioni più stabili e più dignitose in cui vivere, in fuga da guerre e persecuzioni, ha permesso l’incontro tra popolazioni geograficamente lontanissime. Non è una novità ormai che ogni paese occidentale sia popolato, oltre dalla popolazione autoctona, anche da una serie di “minoranze”, più o meno rappresentate ed integrate nella società della nazione. La convivenza di culture diverse nello stesso spazio pone sicuramente delle sfide nuove ed una profonda trasformazione delle appartenenze culturali. Nonostante queste culture mantengano la propria identità è molto facile che ci sia una sorta di contaminazione proprio a causa dell’incontro con altre culture: questo può determinare quindi una diluizione della propria identità.
Ci sono degli aspetti sicuramente negativi che si palesano quando più culture convivono, come è stato possibile osservare nel corso di tutta la storia umana. Molto spesso il fatto di voler imporre i propri usi e costumi ha determinato una sorta di gerarchia tra i cittadini, dove chi è immigrato si trova a dover mantenere la propria cultura all’interno di una sfera privata, e a poter condividere molto poco con il resto della comunità, a causa della mancanza di spazi accoglienti che permettano un dialogo aperto tra persone di nazionalità diverse.
Questo fenomeno porta alla nascita delle cosiddette subculture. Gli antropologi sostengono che per parlare di una cultura globale bisognerebbe intendere un’interconnessione di diverse culture locali: significa quindi che nonostante l’incontro tra nuove culture non si forma mai un unico sistema di valori e norme, significati ed identità, ma potrà invece verificarsi la nascita di forme ibride culturali. Questo scenario permette di pensare alla multiculturalità come a una pacifica convivenza di più culture, ma anche a confronti tra le varie credenze e i valori differenti.
5. La guerra globale
Il termine “globale” indica una svolta rispetto al modo in cui veniva combattuta precedentemente la guerra, e questo concetto era già stato individuato dal docente universitario di Bologna Carlo Galli nel 2002, in seguito all’attentato terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Galli aveva riconosciuto la guerra globale come una conseguenza della globalizzazione stessa e previsto che questa si sarebbe ripresentata con una certa cronicità. Questo è dovuto al continuo progresso in tutti i campi bellici che rende impossibile regredire a modalità di combattere la guerra simile a quelle utilizzate nel passato. Il docente ha anche analizzato le difficoltà nel comprendere un quadro geopolitico molto complesso e sfumato, in cui emerge la debolezza dello Stato nazionale, proprio a causa dell’affermarsi della globalizzazione.
Si tratta di un concetto estremamente attuale visto il conflitto che da mesi sta interessando l’Ucraina e la Russia, e ovviamente tutte le nazioni che, anche indirettamente, sono rimaste coinvolte. In sostanza una guerra globale si differenzia dalle guerre mondiali combattute precedentemente a causa di un cambiamento nelle logiche e nelle strategie con cui si presenta. In altre parole prima di questo millennio le guerre avevano sempre avuto delle ripercussioni molto evidenti sui paesi che erano direttamente coinvolti, provocando migrazioni, fame e crisi economiche devastanti. Ed è esattamente il quadro che si è verificato a partire da febbraio 2022 in Ucraina. Tuttavia, una serie di altre implicazioni si è presentata anche nei paesi che non erano direttamente coinvolti nella guerra, dove i combattimenti non stavano avvenendo: “Con il blocco sul grano e sui fertilizzanti la fame è infatti strategicamente pianificata per prendere corpo in altre parti del mondo, pianificata come arma per minacciare o causare migrazioni dall’Africa verso i paesi europei, che non sono in guerra” (Corriere della Sera, 23 giugno 2022). Lo stesso concetto che si applica sul grano viene esteso anche all’energia, ed i paesi europei come l’Italia si trovano ad affrontare la cosiddetta “crisi energetica”, che si accompagna ad una recessione dell’economia che mette in seria difficoltà anche i paesi che sostengono l’Ucraina, ad esempio tramite l’invio di armi.
La guerra globale è vista come più “sleale” di una qualsiasi guerra, perché “asimmetrica”, ovvero si combatte anche al di fuori del vero teatro di guerra; un’altra novità si trova nel fatto che molti dei suoi sviluppi si basano sulla tecnologia, ovvero i media e la rete web diventano il principale mezzo di comunicazione tra le parti coinvolte.
6. Rischio, incertezza, identità e consumi
La globalizzazione ha sconvolto gli assetti geopolitici, ma non solo: si tratta di un fenomeno che anche a livello microscopico ha determinato dei cambiamenti significativi nella vita quotidiana delle singole persone.
Tra gli effetti negativi in senso socioeconomico sono già stati citati la delocalizzazione e la deindustrializzazione, che portano come conseguenza l’aumento delle disuguaglianze tra la popolazione generale e le èlites, ovvero le classi sociali più elevate. Non a caso, il numero di milionari e miliardari sta aumentando in tutto il mondo, e secondo la rivista Forbes entro il 2026 ci saranno circa ottantasette milioni di milionari in tutto il mondo. Quindi un sistema che apparentemente promuove l’uguaglianza sociale aumentando i posti di lavoro nei Paesi meno abbienti e dando maggiori possibilità di consumo dei beni nei vari paesi del mondo, nasconde certamente dei lati oscuri.
Sicuramente un altro rischio legato al procedere della globalizzazione è quello sanitario, come è stato visto durante la pandemia da SARS-CoV-2. Infatti, se un’epidemia fosse scoppiata in un continente prima della globalizzazione, sarebbe stata molto più complessa e rallentata la sua diffusione in altri continenti, fino ad interessarli tutti. In questo caso, gli scambi continui tra diverse nazioni ha reso molto più fragile e vulnerabile la popolazione; d’altro canto, la cooperazione all’interno della comunità scientifica ha permesso agli scienziati di procedere più rapidamente verso nuove scoperte sul Coronavirus e ha permesso di trovare addirittura più di un vaccino in tempi record. La recente pandemia è tuttavia solo uno dei multipli esempi in ambito sanitario che possono spiegare come la globalizzazione ha permesso lo svelto diffondersi di infezioni da microrganismi: emblematico è stato anche il caso dell’HIV. Il passaggio del virus sarebbe dovuto al passaggio di sangue dalle scimmie all’uomo, che viene spiegato dalla tradizione delle tribù africane di nutrirsi con carne di scimmia non sempre ben cotta oppure da possibili ferite causate dalle scimmie durante le battute di caccia.
Per quanto riguarda i consumi invece, che rientrano nei beni, questi al giorno d’oggi sono molto più omogenei in tutto il mondo rispetto a qualche decennio fa: se si pensa alle multinazionali che sono appunto distribuite in tutto il globo, non è difficile trovare persone che provengono a luoghi molto lontani tra loro indossare gli stessi abiti provenienti dalla stessa multinazionale. Qualche decennio fa, invece, avremmo più facilmente trovato abiti tipici e rispecchianti la cultura del luogo, che oggi verrebbero definiti “costumi tradizionali”, come la berrita sarda utilizzata fino all’inizio del Novecento o la coppola siciliana. Questo fenomeno rischia di far perdere la tradizione e l’identità dei vari paesi e delle comunità differenti dei paesi stessi. Di conseguenza il fatto di riuscire a mantenere una propria individualità è diventata una delle sfide del nostro tempo.
L’aumento esponenziale dei consumi ha portato ad un aumento dell’offerta, per cui le persone tendono ad acquistare molto più che nei decenni passati, scartando anche con facilità i propri beni per sostituirli con altri nuovi. Questo ha dato origine, da una parte, al concetto di “fast fashion”, un modello di business insostenibile che riguarda principalmente gli abiti, ma anche altre categorie di oggetti. “Earnest Elmo Calkins nel 1800, affermò come i prodotti potessero essere divisi in due categorie: i prodotti che usi e quelli che consumi, come si fa con le gomme da masticare e le sigarette, o altri beni deperibili. Per il pubblicitario il consumismo significava far sì che le persone trattassero le cose che usano come quelle che consumano (Dress the Change)”.
Per stare al passo con la fast fashion le multinazionali si organizzano per aumentare la propria produzione su scala mondiale, e questo favorisce lo sfruttamento dei lavoratori sottopagati nei Paesi in via di sviluppo e la bassa qualità degli articoli venduti. D’altra parte, risulta un problema di scala mondiale quello dello smaltimento di tonnellate di oggetti, abiti e mobili che nel mondo industrializzato vengono scartati ogni giorno: siccome non esistono dei sistemi di gestione del fenomeno che siano sufficientemente avanzati, gli oggetti “in eccesso” vengono esportati in paesi estremamente poveri, quasi sempre nei paesi che fanno parte del global South, arrecando danno agli artigiani e ai commercianti locali e causando un forte inquinamento.
In generale, si può affermare che a livello microscopico e personale la globalizzazione permetta di ampliare gli orizzonti della mente e della coscienza, ma priva le persone delle norme sociali e morali fondamentali per entrare a far parte della comunità. L’antropologo indiano naturalizzato americano Arjun Appaduraj sottolinea come la globalizzazione acuisca le condizioni in cui si verifica la violenza, in un clima di incompletezza; egli descrive con parole illuminanti uno dei risvolti della globalizzazione, legato all’incertezza:
“In parole semplici, anche se nel corso della storia umana la linea tra “noi” e “loro” è sempre stata sfumata lungo i confini e confusa in caso di vasti territori e grandi numeri, la globalizzazione esaspera queste incertezze e produce un nuovo impulso alla purificazione culturale, mano a mano che un numero crescente di nazioni perde l’illusione della sovranità economica nazionale o del benessere”.