Di cosa parleremo
Il Novecento è il secolo che ha assistito alla crisi delle idee politiche che avevano animato il pensiero filosofico già dalla fine dell’età moderna, la svolta totalitaria degli anni Trenta e la successiva diffusione di ideali forti di democrazia e libertà. Numerose sono state le prospettive da cui si è mossa l’analisi politica e filosofica nel secolo scorso: proviamo a sintetizzare di seguito le principali.
1. Carl Schmitt e il decisionismo
Carl Schmitt (1888-1985), giurista e teorico politico, tedesco cattolico e conservatore che considera il decisionismo il punto di partenza di una originale proposta filosofica e politica post-razionalistica e post-individualistica.
Nella sua opera «Teologia politica» (1922) il filosofo di Plettenberg (Westfalia) sposta l’attenzione della riflessione politica, precedentemente incentrata solo sul «come si deve decidere» su «chi deve decidere» identificando la «sovranità» con il potere che «decide» nelle situazioni eccezionali che, come tali, non rientrano nella «normalità» dell’ordinamento giuridico.
Schmitt è critico sia nei confronti del liberalismo, sia del giuspositivismo, che riducono la sfera della politica al solo «insieme» di norme giuridiche che caratterizzano l’ordinamento di uno Stato (Kelsen).
La politica, invece, rappresenta l’orizzonte di una decisione che coinvolge tanto gli individui quanto i sistemi normativi: l’ordine politico nasce dal disordine, attraverso la decisione del singolo, dalla rivoluzione o dalla violenza.
Secondo Schmitt, il neutrale «atteggiamento» di eludere l’origine extra- razionale della politica produce un sistema giuridico privo della capacità di fronteggiare il disordine.
Momenti e fasi del pensiero schmittiano sono:
- la critica al liberalismo. La polemica antiborghese e antiliberale si manifesta già nella critica all’idealismo, considerato espressione di un dialogo del Soggetto con se stesso (io, non io) e non con il mondo reale. L’alternativa è il collegamento al potere della Chiesa cattolica, che fa coesistere sotto la sua autorità più aspetti del «reale» diversi fra loro poiché rappresenta un potere in in grado di «conciliare» la fede ultraterrena con gli interessi terreni dei singoli;
- la critica alla modernità. Nella riflessione politica contemporanea si è perso il contatto con il problema dell’origine dell’ordine politico, visto nella prospettiva di uno stato di eccezione in cui il «decisionismo» prende il sopravvento soprattutto perché nelle «democrazie parlamentari» le stesse assemblee legislative, più che essere centri decisionali della volontà popolare, rappresentano spesso «accademia di futili discussioni». La politica moderna trae origine dalla teorizzazione della dittatura da parte di Hobbes, intesa come espressione di una decisione assoluta irrazionale (per niente razionalizzabile), derivante dalla volontà di un’autorità suprema concreta (il Leviatano);
- origine della politica. Il fondamento della legittimazione del potere per il «decisionismo» si riscontra partendo dall’analisi della formazione dello Stato e delle «categorie del politico» che si basano sulla distinzione radicale e reale fra «amico» e «nemico».
Questa visione tiene conto del problema di fondo secondo cui la «politica» è una «realtà conflittuale» caratterizzata dalla frammentazione e dallo scontro di interessi sia interni che internazionali.
Il politico deve avere la capacità di riconoscere chi si oppone e chi sostiene le proprie strategie.
Il senso di questa teoria è particolarmente evidente nelle relazioni internazionali, cioè nel conflitto fra Stati. In politica interna, invece, la dimensione della politica è rappresentata dalla guerra civile, che Schmitt considera momento necessario per lasciar prevalere un’istanza su un’altra attraverso il conflitto e tramite l’eliminazione del nemico interno.
Il potere nello «Stato liberale», sottomesso alle pressioni delle classi economiche che detengono le redini dello Stato, esprime un diritto «neutrale» e «particolare», docile strumento dei «compromessi» di una politica frammentaria e disomogenea che perde di vista il fine prioritario dello Stato: la vita e il benessere del popolo.
È necessario, pertanto, restaurare, con tutti i mezzi possibili, l’autorità dello Stato attraverso un atto politico, una decisione che tenga conto dell’imperativo «auctoritas, non veritas facit legem».
Tale autorevolezza viene «scandita» dal popolo riunito con l’acclamazione spontanea di un capo (acclamatio) che incarna la legge, che guida e che protegge secondo l’imperativo che regola la vita dell’eletto «protego, ergo obligo»: da questo assunto ne deriva la legittimazione ideologica, sociale, politica e giuridica dell’ascesa di Adolf Hitler.
La democrazia, così come il regime liberale, sono criticabili da Schmitt perché:
- la prima elimina il politico a causa della presenza della massa informe del popolo sulla scena politica;
- la seconda pone la liberà del singolo in contrapposizione a quella dello Stato, sostituendo il principio della legalità con quello della legittimità e della rappresentanza.
La crisi di Weimar e l’ascesa del nazismo. Il concetto di «decisionismo» scaturisce dalla manifesta debolezza dimostrata dalla scarsa «tenuta» della costituzione tedesca di Weimar (1919) che rappresenta il compromesso fra il principio della rappresentanza liberale e quello della presenza democratica.
La riflessione decisiva che Schmitt conduce nel valutare la costituzione di Weimar è quella della contrapposizione fra «Stato totale per debolezza» e «Stato totale per energia»:
- alla prima nozione corrisponde lo Stato liberale, che si è mostrato inadatto a fronteggiare il sorgere degli estremismi (bolscevismo e nazismo) e che si limita a regolare «neutralmente» la vita sociale attraverso il mero esercizio della tecnica amministrativa;
- alla seconda, invece, Schmitt ricorre per definire l’affermarsi della «decisione» contro le istituzioni liberali, da applicare attraverso la delega del potere legislativo a un capo eletto (acclamato) dal popolo, legittimato a promulgare atti di legislazione primaria scavalcando il Parlamento.
Di qui la convinzione che il «nuovo ordine» imposto da Hitler potesse avvicinarsi a quello teoricamente auspicato da Schmitt.
La premessa teorica è il concetto di ordine concreto dal momento che la norma è espressione di un valore astratto, che deve, invece, nascere dall’articolarsi di contesti diversi e concreti. Ne è un esempio la triade dell’unità politica, considerata come la risultante di popolo (base razziale apolitica), partito (fonte dell’energia politica) e Stato (quadro formale per l’esercizio dell’azione politica).
Schmitt è noto anche per la teoria dell’impero (Reich) come «grande spazio» (Grossraum), caposaldo per ripensare il diritto internazionale non più come mera interazione «egualitaria» tra Stati Sovrani, ma secondo una divisione del mondo in una serie di macro-aree geografiche sottoposte all’influenza e al dominio degli Stati più forti che «decidono» da soli (es.: attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) le sorti del pianeta.
Il concetto di «nomos» e la spartizione del mondo. I problemi legati alla geopolitica vengono affrontati nel Nomos della terra, un testo-chiave in cui Schmitt ricostruisce la storia delle relazioni internazionali partendo dalla contrapposizione tra potenze terrestri e marittime.
Le prime sono il riflesso di una consapevolezza spaziale, mentre le seconde non hanno limiti e confini.
Ne consegue che lo spazio della politica internazionale non può essere assorbito dalla sfera del diritto. Il diritto, infatti, è unità di ordine e di localizzazione, cioè il modo in cui un ordinamento politico si rapporta allo spazio. Tale rapporto è definito dalla legge (nomos) che suddivide lo spazio e combina i diversi contesti dell’ordine e della localizzazione. Ne deriva che gli ordinamenti politici non nascono da un’idea, né da un patto, ma da una spartizione originaria del mondo.
Le potenze marittime generarono concetti politici diversi e furono conseguenza di una diversa modalità di espansione delle grandi potenze navali (Inghilterra, Olanda, Francia, Spagna, Portogallo).
Nell’Inghilterra del Seicento, ad esempio, è il mare a produrre i concetti della politica, che in questo caso sono caratterizzati dall’assenza di qualsiasi limite territoriale alla sua espansione in un conflitto militare e ideologico con l’Olanda (si ricordi al riguardo la diatriba sul «mare liberum» e «mare clausum» tra l’olandese Grozio e Selden che più che avere una «valenza ideale» erano legati ai differenti interessi mercantili delle due potenze marinare: Ugo Grozio, in opposizione al britannico Selden (che teorizzava il predominio marittimo delle grandi potenze), si fece protagonista del principio internazionalistico, successivamente affermatosi nell’ordinamento internazionale, di «libertà dei mari».
Sulla differenza fra terra e mare si fonda, per Schmitt, l’ordine mondiale, che è a rischio di crollare a causa dell’imporsi di superpotenze come gli Stati Uniti che cominciano a pretendere che il diritto internazionale sia una categoria universalistica e indifferenziata.
Il trionfo del mare (e della libertà dei mari) ha decretato la nascita di un’epoca di disorientamento, ma anche di uniformità sancita dalla scomparsa della distinzione fra «amico» e «nemico» (e, dunque, dalla scomparsa del «politico»).
2. La dottrina pura del diritto di Hans Kelsen
La crisi dello Stato moderno è il punto da cui muove il pensiero di Hans Kelsen (1881-1973). Il giurista viennese critica il concetto di sovranità e la sua centralità nella definizione della sfera del diritto che, invece, deve essere considerato «depurato» da ogni forma di contaminazione politico-sociologica.
Non è la politica a fondare il diritto, ma l’inverso.
Il diritto è un sistema autonomo e logico di norme positive che si impongono dogmaticamente senza consentire nessun giudizio di valore.
Lo Stato è un ordinamento giuridico caratterizzato da uno specifico grado di centralizzazione.
La crisi dello Stato odierno, dunque, non è una crisi del diritto, ma il prodotto di una progressiva dissociazione fra sfera della sovranità e sfera giuridica che deve essere sostituita dalla ricostruzione di un sistema monistico che riconduce la politica all’interno di un sistema unico e globale di norme giuridiche.
Per Kelsen non è dunque la “decisione” che fonda la legittimità di un’azione politica (come afferma Schmitt), ma l’esistenza una unica ed esclusiva norma fondamentale, la cosiddetta «Grundnorm» (norma base) che rappresenta un principio astratto e formale da cui dipende l’intera validità dell’edificio giuridico sia a livello internazionale che nazionale (monismo) e che viene rappresentata come il vertice più basso di una piramide rovesciata.
Dal normativismo di Kelsen derivano due conseguenze significative:
- il primato della Costituzione come fonte primaria che condiziona l’attività legislativa del Parlamento e che è alla base dell’ordinamento;
- il primato della democrazia parlamentare. Il Parlamento non è solorappresentanza della sovranità popolare, ma anche l’istituzione che tutela le minoranze e permette loro, nell’agone politico, di trasformarsi in maggioranza.Il parlamentarismo, dunque, si rivela la sede più idonea per la tutela il confrontro tra ideali sociali e politici diversi.
3. La riflessione sul totalitarismo
Le critiche filosofiche della modernità. Alla corrente di pensiero che considera i totalitarismi del Novecento come una tipica reazione alla crisi della modernità, si affiancano altre dottrine che vedono, al contrario, proprio nel «moderno» la radice degli ideali totalitari.
Si tratta di una cerchia di filosofi i quali, lungi dal proporre soluzioni costruttive ai problemi politici dell’età contemporanea, concentrano i propri sforzi solo limitandosi a definire le «radici» di tali problemi.
Fra Germania e Stati Uniti. Un primo gruppo di critici della modernità è costituito da quei filosofi europei emigrati negli USA, perché ebrei antifascisti, per sfuggire alla persecuzioni del nazismo.
Questi pensatori, che si formano prevalentemente nell’area culturale tedesca e contribuiscono alla diffusione della cultura europea in America, sono: Strauss, Voegelin, Arendt, Popper. Esaminiamo il loro approccio filosofico al totalitarismo:
1) Verità e filosofia in Leo Strauss (1899-1973)
Il suo pensiero si articola attorno a due domande:
- il rapporto fra filosofia e rivelazione religiosa;
- il rapporto fra religione, filosofia e politica.
Alla prima domanda Strauss risponde proponendo una rigorosa distinzione fra religione e filosofia, poste in una tensione irrisolvibile.
La verità religiosa è diversa dalla filosofia. Nessuna delle due verità, inoltre, è completamente realizzabile nella politica.
La verità della filosofia è asociale, perché tende a distruggere le opinioni medie e i conflitti concreti che si generano nello spazio della politica. I filosofi devono difendere la «filosofia dalla polis», ma anche la «polis dalla filosofia». La filosofia politica moderna, che Strauss vede incarnata in Machiavelli, Hobbes e Spinoza, commette l’errore di negare all’uomo un destino morale superiore e di restringere la morale ad un momento interno, alla «città funzionale alla politica».
Inevitabile è la conseguente decadenza dell’età moderna (evidente con Rousseau), che sostituisce il principio dell’oggettività del valore con quello della soggettività e considera la natura non la base di un ordine politico, ma un criterio negativo e il terreno più fertile per criticare il potere costituito. Contro il liberalismo moderno Strauss propone di tornare a riflettere sul liberalismo antico, inteso come fonte di educazione dell’uomo alla propria dignità e alla virtù morale.
Il «conservatorismo» di Strauss nasce dall’esigenza concreta di difendere la società statunitense dall’avanzare della cultura progressista, in funzione del rifiuto complessivo della filosofia politica moderna che, come egli stesso afferma, viene sottoposta a una reductio ad Hitlerum;
2) La trascendenza secondo Eric Voegelin (1901-1985)
Secondo Voegelin i totalitarismi sono il prodotto di quelle società incapaci di comprendere la differenza fra politica e religione, fra immanenza a trascendenza e che attribuiscono alla politica un significato religioso.
Ispirandosi al pensiero di Vico, Voegelin approfondisce questo discorso, in particolare lo studio dei simboli e delle esternazioni attraverso cui i singoli ordini politici manifestano la consapevolezza di se stessi (discorsi, istituzioni, ideologie, riti). Caratteristica degli ordini politici occidentali è il fatto che essi si pongono in una dimensione critica nei confronti dei problemi della trascendenza.
Il passaggio dalla compattezza, tipica dei regimi orientali, all’articolazione moderna non è una evoluzione, ma un vero e proprio salto reso possibile dal cristianesimo, che attraverso l’introduzione del principio soteriologico (che pone il problema della salvezza), trasforma la storia nel veicolo necessario per la realizzazione della verità e per il raggiungimento della vita eterna.
La storia è il conflitto fra noesi e gnosi, cioè fra il necessario aprirsi della politica alla trascendenza e il sorgere di sempre nuove «religioni politiche» che tentano di circoscrivere la trascendenza nella «politica concreta» attraverso particolari rappresentazioni simboliche.
3) La «vita activa» di Hannah Arendt (1906-1975)
Il pensiero della Arendt, allieva di Heidegger e Jaspers, passa attraverso una critica alla modernità intesa come secolarizzazione, cioè come riduzione della trascendenza nell’immanenza, e come degenerazione della filosofia politica a mera scienza della politica.
La politica, intesa come azione collettiva, deve essere sottratta a ogni presupposto filosofico: un esempio in questo senso è il concetto di totalitarismo.
È vero che i totalitarismi, secondo la politologa ebrea, si affermano sempre per cause politiche, economiche e sociali ben determinate. Ma è altrettanto vero che la peculiarità dei totalitarismi del Novecento è quella di fondare un «concetto» di totalitarismo che, secondo la Arendt, è diretta derivazione dello Stato moderno e ne sviluppa e radicalizza alcune caratteristiche fondamentali.
In questo modo può essere spiegato anche il fenomeno dell’antisemitismo: lo Stato borghese è caratterizzato da dinamiche di esclusione che contraddicono la protesa universalità implicita nel concetto di cittadinanza.
La discriminazione degli ebrei è il prodotto estremo di questo fenomeno. Il germe che dissolve lo Stato moderno e lo rende totalitario è la massa, capace di articolare una rivolta contro lo status quo, ma manipolabile «attraverso la propaganda del regime».
Per la Arendt la dottrina totalitaristica può essere «superata» applicando la teoria della vita activa che propone i seguenti imperativi:
- lavorare, cioè produrre per soddisfare le esigenze della vita degli esseri umani;
- operare, ovvero costruire gli strumenti per fabbricare il mondo artificiale delle cose;
- agire, ossia mettere in contatto gli uomini per aspirare alla fama e all’immortalità.
La «vita activa» della politica è diversa dalla vita contemplativa del filosofo che nella sua solitudine aspira al raggiungimento di una verità eterna e immutabile. La sfera «politica» è, al contrario, caratterizzata dall’esercizio del potere, che non è solo violenza ma anche, nella sua natura originaria, pluralità di volontà, di idee, di azioni.
Hannah Arendt sostiene che i cittadini devono partecipare attivamente alla vita politica, perché è proprio dalla loro esclusione che nasce il totalitarismo. Sul modello della pólis greca, la filosofa sostiene la democrazia diretta, centrata sul pluralismo delle idee e il confronto.
Negli ultimi anni della sua vita, tornando sulla filosofia di Kant, la Arendt elabora una teoria del giudizio politico, relativa all’individuazione della presenza della responsabilità politica nelle azioni individuali che non possono essere ridimensionate da nessuna forma di appello a ordini superiori o a necessità storiche.
4) La «società aperta» di Karl Raimond Popper (Vienna 1902 – Londra 1994) critica la dottrina filosofica della «società perfetta» teorizzata dalla visione storicistica che ritiene di aver individuato alcune leggi universali sottese all’accadere storico (olismo).
Il filosofo di origine ebraica, uno dei fondatori del circolo di Vienna, preconizza nella «Società aperta e i suoi nemici» (1945) una «società riformata» in grado di opporsi a quella attuale definita «chiusa», dominata dall’egoismo razziale, naturalista e religioso che ha creato un potere tirannico che ha sottomesso l’uomo alla politica, alla religione e alla scienza. L’antidoto per lo sviluppo di una società aperta è la «democratizzazione delle istituzioni» che permette l’apertura della «società chiusa» alle riforme senza ricorrere alla violenza adottando il metodo democratico, così, raggiungendo la consapevolezza collettiva di agire sempre con giustizia e rispetto della volontà popolare per raggiungere fini sociali e collettivi.
La Francia. I filosofi francesi di questi anni (Weil, Lévinas, Bataille) non propongono, come i loro colleghi tedeschi, un ritorno ai valori della polis greca, ma sottolineano l’esigenza di fare del «pensiero» un uso che rifiuta integralmente ogni dimensione della politica:
1) La critica dell’uso della forza in Simone Weil (1909-1943)
Il suo pensiero può essere distinto in due fasi: la prima tocca temi di natura politico-sociale, mentre la seconda, che segue la sua rinuncia a ogni attività politica, è caratterizzata da un forte misticismo.
Elemento comune a entrambi i momenti è, però, la critica del potere considerato espressione di una imposizione della sola forza.
Nelle prime opere tale critica è rivolta nei confronti della burocratizzazione derivante dal taylorismo, mentre nelle opere scritte a partire dal 1935 si concentra sulla presa di coscienza del carattere pervasivo della forza e del dominio, reagendo con la volontà del singolo di non sottomettersi e rifiutando ogni forma di politica. Il diritto deve essere sottratto alla forza e tutti devono riconoscere i bisogni specifici dell’essere umano: questo è l’obbligo morale della politica.
2) L’atto d’accusa alla storia e alla filosofia occidentale di Lévinas (1905-1995)Il filosofo Emmanuel Lévinas, nato in Lituania ma ben presto trasferitosi in Francia, ha vissuto in prima persona le persecuzioni antisemite essendo stato prigioniero in un campo di lavoro riservato gli ebrei durante il secondo conflitto mondiale.
Il filosofo francese dedica la sua attività speculativa all’analisi del totalitarismo, col dichiarato intento di fare in modo che l’orrore di Auschwitz non si ripeta.
Le responsabilità del nazismo vengono indagate a fondo e rintracciate nella storia stessa dell’Occidente che, nel considerarsi autosufficiente, ha peccato di superbia, dando spazio a politiche reazionarie e alle conseguenti derive totalitarie.
Nella sua opera più importante, Totalità e infinito (1961), Lévinas attribuisce anche alla filosofia occidentale la colpa di non aver individuato in tempo la piega che il nazismo stava prendendo, perché essa stessa, da Parmenide a Hegel, passando per Socrate, ha concentrato l’indagine sull’Uno, sull’Assoluto, negando l’Altro e le sue ragioni.Solo riconoscendo l’Altro – sostiene Lévinas – rispettando la sua natura e la sua libertà è possibile uscire dalla dimensione totalitaria e aprirsi ad un modello sociale eticamente fondato.
3) La sociologia del sacro di Georges Bataille (1897-1962)
Per il pensatore transalpino la politica moderna è costruita attorno alla categoria dell’utile, da cui consegue il misconoscimento dell’origine sacrale del potere.
Il sacro non coincide con la trascendenza del cristianesimo, ma si fonda su un sentimento di attrazione e timore per l’autorità sovrana.
Proprio per questo Bataille propone la formazione di una sociologia del sacro, capace di criticare il mondo ormai pienamente secolarizzato e laicizzato e di mettere in evidenza l’eclissi del sacro che qualifica l’età moderna e contemporanea.La soluzione fascista della politica del Novecento è indice di una domanda collettiva e individuale insoddisfatta di sacro.
Tale soluzione è distorta perché nel sottomettersi a un capo carismatico gli uomini non riconoscono il «sacro» come «libertà». Il negativo, la trasgressione e l’eccesso, che si esprimono nelle esperienze extrapolitiche dell’erotismo, del riso e dell’arte, sono le categorie rivelative del «sacro» che Bataille chiarisce attraverso una suggestiva interpretazione della dialettica hegeliana.
4. Contrattualismo, liberalismo e “terza via”
Queste ultime correnti chiudono questo breve excursus sul pensiero politico i cui pensatori di maggior rilievo sono:
Rawls: contrattualismo, giustizia sociale e collaborazione globale. All’inizio degli anni Sessanta si registra negli Stati Uniti una nuova dottrina politica, inaugurata dalla formazione di «Una teoria della giustizia» di stampo kantiano del pensatore statunitense John Rawls (1922-2002), tesa a consentire la convivenza pluralistica di differenti ideologie, nel rispetto, però, dei diritti fondamentali che costituiscono la struttura di base ineliminabile di ogni società democratica.
In questa opera Rawls tenta un recupero della tradizione contrattualistica che a partire dal Rousseau emerge in situazioni di crisi generale per riformulare, in termini più attuali, un nuovo «patto sociale» tra Stato e cittadini.
Contro le teorie utilitaristiche che hanno spesso reso «non governabili» gli Stati, Rawls oppone una sintesi tra i concetti fondamentali del liberismo e le critiche rivolte dal socialismo che sfociano nel trionfo della socialdemocrazia nella quale convivono sia gli interventi pubblici dell’economia (tipici del socialismo) che le fonti di diseguaglianza economica e, poi, sociale generata dalla leggi del mercato (tipiche del capitalismo).
La teoria del contrattualismo viene riproposta da Rawls tenendo conto delle teorie relative alle scelte pubbliche e alle decisioni razionali dei governanti.
Il contrattualismo, infatti, rappresenta una scelta razionale perché solo una «condotta politica», garantita da fattori condivisi di razionalità, può risolvere il problema della giustizia sociale che mira alla creazione di uno Stato giusto.
La sua teoria, infatti, più che legittimare il potere politico, si pone come baluardo dell’equità per costruire una società più giusta.
L’accordo originario tra gli individui (contratto) è indice di una radicale simmetria, scandita da due principi:
- il primo riguarda i diritti fondamentali garantiti dalla tradizione liberale e si concentra sulla proclamazione del primato delle «libertà» sull’uguaglianza;
- il secondo principio è il perseguimento del fine della giustizia sociale, che si raggiunge, nei Paesi capitalisti, con una politica fiscale orientata a criteri di progressività e proporzionalità nel pagamento dei tributi in grado di realizzare equi interventi redistributivi di reddito e ricchezza al fine di mitigare le inevitabili disuguaglianze sociali derivanti dalla sfrenata libertà economica che esaspera il concetto di iniziativa privata arricchendo, così, alcune classi sociali e impoverendone altre.
In conclusione nella visione di Rawls l’eguale distribuzione dei diritti di libertà porta automaticamente all’eguaglianza e alla moralità collettiva in una società in cui il concetto di «giusto» prevale su quello di «benessere».
Secondo Rawls viene, così, superato, in nome dell’equità e della giustizia distributiva, il concetto di «casta» e di appartenenza ad una determinata classe giungendo, con l’affermazione del principio generale di cooperazione globale di tutti (a prescindere dalle diseguaglianze sociali e reddituali), a beneficio sia della società che dei singoli.
Nella sua opera del 1999, The law of peoples, infine, estende la sua teoria della giustizia anche all’ordinamento internazionale che deriverebbe dall’incontro, a livello planetario, tra i popoli ragionevoli in grado di rispettare i principi naturali e l’equità nei rapporti tra i singoli Stati.
Dworkin e il neogiusnaturalismo. La riflessione di Rawls ha dato impulso a un nuovo dibattito sui diritti che viene portato avanti da Ronald Dworkin (1931), che si rifà alla teoria giusnaturalistica e che esalta i diritti individuali preesistenti agli Stati e alle codificazioni e derivanti dalla recta ratio presente in ciascun individuo.
Il «diritto» per Dworkin si divide in tre macrocategorie a seconda se sia basata su:
- obiettivi;
- diritti;
- doveri.
Questa teoria si propone di conciliare la teoria dei diritti fondamentali con le istanze inviolabili e assistenzialistiche dello Stato sociale.
Anche in questo caso assume notevole importanza il problema per il singolo Stato l’equa redistribuzione del carico fiscale che permette il finanziamento e l’ampliamento dei compiti dello Stato, che si oggettiva nella tassazione proporzionale e progressiva sul reddito di ciascuno per finanziare sussidi sociali, sanitari e disoccupazione.
Nozick (teoria dello Stato minimo). Uno dei critici più aspri e reazionari della teoria di Rawls, Robert Nozick ebreo russo nato negli Stati Uniti (1938- 2002) docente dell’università di Harward, che nel suo saggio Anarchia, Stato e Utopia, pur apprezzando la “teoria della giustizia”, oppone una prospettiva liberale dello Stato minimo (unica forma di Stato moralmente legittimo e tollerabile) fondato sulle leggi mercato, libera iniziativa privata e meritocrazia, teso a limitare l’eccessiva ingerenza dello Stato-persona (governo, Pubblica amministrazione, etc.) sullo Stato-comunità.
Prioritaria appare, dunque, la meritocrazia (di stampo calvinista) contrapposta al potenziale appiattimento dello Stato sociale prefigurato dagli esiti neoliberisti di Friedmann.
Nozick prende le mosse dal dogma dell’intangibilità della proprietà propugnata nel ’700 da Locke, considerata come la unica fonte valida dei diritti, per arrivare a sostenere che solo il libero scambio è in grado di realizzare la vera giustizia redistributiva.
Lo Stato sociale, criticato da Nozick, implica lo scivolamento da una concezione della libertà come proprietà su se stessi (questa l’idea di Locke) a una concezione della «libertà come proprietà su altri» tanto che riduce le funzioni dello «Stato minimo» a quelle di un «guardino notturno».
Contro tale presunta «violenza» esercitata dallo «Stato sociale», contrapponendo «forza contro forza», Nozick riabilita il capitalismo nella sua «purezza» e qualifica la sua teoria come «liberista», proponendo una forma di associazionismo e di mutua protezione tra gli individui per superare gli «inconvenienti interni e esterni» derivanti dagli abusi ed eccessi da chi è titolare del potere dell’uso della forza.
Il docente statunitense si arrocca su tali posizioni neoliberaliste estreme dal momento che prende atto delle lacerazioni strutturali presenti nella trama della cooperazione sociale che, anche nei Paesi più evoluti, non è stata mai realizzata completamente [si pensi al problema dell’assistenza sanitaria ancora parzialmente irrisolto in un Paese pur progredito come gli USA motore dell’espansione economica mondiale per la forte opposizione dei conservatori (repubblicani)].
Il libertarismo di Murray Newton Rothbard. Il filosofo statunitense di origine ebraica rappresenta il massimo difensore della visione libertaria che, sulla scia di Locke, si batte per eliminare ogni forma di violenza che parte proprio dalla violenza istituzionalizzata che lo Stato opera direttamente sui cittadini.
In tal modo lo Stato nega ai singoli anche i più elementari «diritti naturali»: così «istituzionalizza» l’omicidio di massa definendolo «guerra», la schiavitù ricorrendo alla coscrizione obbligatoria dei militari, la rapina con la pressione fiscale supportata dal consenso collettivo estorto anche attraverso l’uso dei media.
Appoggiando l’uso sia palese che surrettizio di questi “mezzi fraudolenti” si legittima una classe di «intellettuali di corte» che giustifica il potere statuale mistificandolo come «benessere sociale» e dimenticando l’esitenza di una legge naturale che ci fa capire, con l’ausilio della ragione, ciò che è meglio per l’uomo in un dato momento storico. Ciò perché ciascun individuo è posto dalla natura in condizione di pensare, valutare, agire, imparare e sviluppare le proprie capacità ed attitudini.
L’intereferenza forzata e violenta dello Stato è, dunque, da considerarsi anti-umana e anti-sociale.
La terza via di Anthony Giddens: welfare positivo e nuova socialdemocrazia.
Giddens distingue la socialdemocrazia classica, caratterizzata dal welfare state generalista (che protegge i cittadini «dalla culla alla tomba»), dalla cd. «terza via» (rispetto al liberalismo e alla socialdemocrazia) la quale si caratterizza per alcune importanti novità che si possono così riassumere:
- democrazia cosmopolita: sia le identità nazionali che quelle etniche sono artificiali perché nessun individuo può considerarsi biologicamente un «purosangue», a causa delle mescolanze genetiche derivanti dall’immigrazione, che di solito si dimostra vantaggiosa per il Paese ospite (nazionalismo cosmopolita) che vede, così, incrementata la sua forza lavoro;
- governo mondiale: sia il rischio ecologico che la riduzione dell’ineguaglianza mondiale non possono essere risolti a livello locale; nell’età dell’informazione «il territorio non è più così importante per gli stati-nazione come in passato, le conoscenze individuali e le capacità competitive contano molto di più delle risorse naturali»;
- comunità, tale «formazione sociale» non si deve intendere come recupero di forme perdute di solidarietà locale, ma come forma di associazione di volontariato, imprenditorialità sociale, banca del tempo, progetti di micro- credito, organizzazione non governativa, ed altri gruppi. Ulteriori forme importanti di cosmopolitismo provengono, infine, dal basso (Greenpeace, Amnesty International etc.).Esiste, dunque, nell’immaginario collettivo, uno spazio globale depoliticizzato che, secondo l’Autore, «richiede regolamentazione, nonché l’introduzione di nuovi «diritti e obblighi»;
- welfare positivo: dove «welfare» assume connotazioni negative (mirato essenzialmente al sostentamento dei poveri, come negli Stati Uniti), causando inique le divisioni sociali; i programmi contro la povertà vanno sostituiti con diverse forme solidali fondate sulla comunità: «Chiesa, famiglia e amici» sono le fonti principali della solidarietà sociale per cui lo Stato dovrebbe intervenire soltanto quando queste istituzioni non arrivano ad adempiere pienamente i propri obblighi».Fondamentale è l’investimento pubblico nell’istruzione, che costituisce l’occasione per redistribuire possibilità di crescita intellettiva ed economica, nonché la protezione della famiglia soprattutto favorendo l’inserimento delle donne nei nuovi luoghi e tipi di di lavoro come, ad esempio, il telelavoro.Quanto detto introduce il tema della «sostituzione» del welfare state da parte della welfare society: gli organismi del «terzo settore» sono dunque, chiamati a svolgere un ruolo piu’ importante come fornitori di servizi di welfare positivo al di sopra degli ambiti nazionali, anche se vi sono tuttavia ambiti nei quali i movimenti sociali, le ONG (organizzazioni non governative) ed anche i mercati non possono sostituirsi al governo.
La denominazione «terza via» non va confusa con altre «terze vie» del passato (come nel caso del «fascismo» che si poneva come «terza via» prendendo le distanze sia dal liberalismo che dal socialismo), giacché quella proposta da Giddens è definita «terza» in quanto «nuova» rispetto alla socialdemocrazia classica e al neoliberismo.
Il welfare state della socialdemocrazia classica, secondo l’Autore, «oggi crea quasi tanti problemi quanti ne risolve». Inoltre, la separazione socialismo- capitalismo assume molto meno rilievo rispetto ai contrasti libertario-autoritario e moderno-tradizionalista.