13. L’ermeneutica filosofica

1. L’arte di interpretare i testi da Platone al ’900

La parola greca hermeneuein vuol dire “portare un messaggio”, annunciare, trasmettere, per cui l’ermeneutica altro non è che la “tecnica dell’interpretazione” e che dall’inizio si identifica con la lettura critica dei “testi basilari” della cultura dell’occidente (religiosiletterarigiuridici).

Se questo è l’“approccio tradizionale” (v. paragrafo seguente) non è così da Gadamer in poi perché l’interpretazione abbandona l’analisi letteraria, giuridica e testuale per mirare a scoprire la verità, spostandosi dal terreno letterario a quello “ontologico” che trova la sua sintesi più completa in Heidegger: l’essere è inteso come “evento” e come “temporalità” e, dunque, come tempo-storia-linguaggio.

Platone definisce i poeti hermenès (messaggeri) degli dei, ma allo stesso tempo considera l’ermeneutica una tecnica (applicabile ad esempio all’interpretazione degli oracoli) che di per sé non presuppone conoscenza, in quanto il messaggero non sempre comprende il senso di ciò che trasmette, né ha titolo per controllarne la validità.

Aristotele fa rientrare l’hermeneias (ermeneutica) nella logica, e considera l’interpretazione come la funzione che media tra i pensieri dell’anima e la loro espressione linguistica.

Nel mondo ellenico si contrapposero due scuole filologiche:

  • lascuola di Alessandria, attenta a verificare la versione originaria di tanti testi tradotti e concentrata su un metodo letterale storico-grammaticale che correlava tra loro passi diversi di uno stesso autore;
  • la scuola di Pergamo, che trascura l’aspetto letterale del testo, per dedicarsi a un’interpretazione allegorica tendente ad adattare i testi della tradizione alla mentalità di un’epoca più evoluta.

La distinzione tra “letterale” e “allegorico” compare anche nella tradizione ebraico-cristiana, grazie a Filone Alessandrino, che considera l’allegoria non come un procedimento di razionalizzazione, ma piuttosto un momento di ascesa spirituale.Con il cristianesimo il metodo ermeneutico non rappresenta più una mediazione aporetica (Platone) ma l’essenza stessa della realtà: “Cristo” è interpretazione, “inveramento” e “rinnovamento” di un patto, di una promessa, e la “Scrittura” è la voce stessa di Dio.

S. Paolo, nella rilettura cristiana dell’Antico Testamento, distingue tra la “lettera”, che è ciò che viene materialmente detto, e lo “spirito”, che è il senso ultimo di uno scritto, e attribuisce il senso degli scritti veterotestamentari a Cristo.

In Agostino l’ermeneutica si combina con una valorizzazione della parola interiore, che è il luogo stesso della verità, lo spazio della voce divina.

In ambito islamico Averroè, evidenziando che nella sunna (tradizione) non esiste un’interpretazione dominante (come presso la corrente della Sha’ria, da cui derivano gli sciiti), ritiene che la filosofia possa inserirsi proprio nelle lacune interpretative del testo sacro, affermando, così, l’esistenza di uno spazio laico di riflessione.

Il riformismo protestante introduce una rivoluzione ermeneutica, che consiste nell’intreccio del filone della mistica tedesca con la tradizione umanistica: per Lutero, solo la Scrittura è autentica depositaria delle verità di fede, e non la chiesa, e la Bibbia che è l’interprete di se stessa non ha bisogno di interpretazione. Lutero si serve della filologia umanistica per rivendicare il valore del senso grammaticale del testo contro l’interpretazione “allegorica”.

Questa affermazione, criticando il controllo arbitrario della chiesa cattolica, espone la Bibbia all’immediatezza dell’interpretazione e getta le basi del circolo ermeneutico, ovvero il principio in base al quale l’interpretazione complessiva (l’intero) precede l’interpretazione delle singole parti di un testo.

Il naturalismo scientifico e l’attacco protestante alla tradizione riabilitano il pensiero privo di presupposti (e così Bacone) e considerano “artificiale” il linguaggio ipotizzandone una facile modificabilità, al di là dei suoi vincoli storici e culturali. Bacone teorizza, nella fondazione della nuova scienza empirica e sperimentale, un metodo di eliminazione delle anticipazioni (che lui definisce “pregiudizi” o “idola” di diversa origine e natura) che sarà poi ripreso dall’ermeneutica gadameriana.

GWLeibniz riconosce il senso e il ruolo della tradizione umanistica e cerca di individuare la radice comune del linguaggio matematico e di quello storico-naturale, attraverso una concezione nominalistica del linguaggio.

Un’ulteriore transizione si verifica nell’ermeneutica religiosa, all’interno della quale JJRambach sostiene che l’interpretazione del testo debba sempre rapportarsi alla storia e alla psicologia dell’autore.

Quest’atteggiamento, in particolare, facilita l’interpretazione secolarizzata della Bibbia che culmina nell’illuminismo, per il quale la differenza tra l’interpretazione di scritti sacri e scritti profani scompare del tutto, e si configura un’unica ermeneutica che abbraccia tutte le scienze storiche.

Nel frattempo, si apre un conflitto tra SReimarus, che attacca il testo biblico giudicandolo assurdo e JGHamann, che invece vede nel linguaggio della Bibbia la rivelazione divina adeguata agli aspetti più umili della realtà.

Hamann, che è il primo pensatore dell’epoca romantica, critica l’illuminismo e individua nel linguaggio la fonte comune e l’organo di mediazione tra ragione e rivelazione. Nel linguaggio è depositato il patrimonio storico e tradizionale dei popoli, e attraverso di esso Dio si è adattato alla mentalità degli uomini.

Per JGHerder KWHumboldt il linguaggio è l’essenza dell’umano, ed è attraverso la lingua che transitano le tappe essenziali dello sviluppo dell’umanità. Humboldt, in particolare, sostiene che ogni lingua ha una propria forma che esprime la peculiare mentalità del popolo che l’ha forgiata. La lingua è un a priori storico attraverso cui l’individuo esce da un metafisico isolamento ed entra nella storia. La lingua è, dunque, un’attività vivente, un organismo comparabile con altri organismi.

FSchlegel elabora una filosofia della filologia: ogni indagine archeologica del passato non è mera oggettivazione, ma implica un impegno filosofico dell’interprete che deve storicizzare e, allo stesso tempo, superare la distanza temporale. In Schlegel l’infinità dell’interpretazione dipende dall’inesauribilità della lettera, elemento che anticipa aspetti della riflessione ermeneutica contemporanea. La parola è finita e vuole diventare infinita, mentre lo spirito è infinito e vuole diventare finito. Così l’indagine filologica viene declinata al futuro e l’ideale estetico viene sostituito dall’utopia estetica, e il passato dall’avvenire.

FDESchleiermacher fu considerato da Dilthey il capostipite dell’ermeneutica moderna: egli identifica i limiti dell’ermeneutica con quelli del linguaggio stesso.

Per Schleiermacher, oggetto dell’ermeneutica non è solo il passo o lo scritto oscuro, ma qualsiasi espressione comunicativa passata o presente. Mentre per l’ermeneutica precedente la comprensione è il punto di partenza e il fraintendimento è l’incidente, qui la prospettiva si capovolge: il punto di partenza è l’estraneità e l’oscurità del testo o dell’interlocutore (l’autore); l’interpretazione deve superare il fraintendimento iniziale di esseri tra loro diversi.

L’estraneità e l’oscurità dell’altro sono i segni dell’impossibilità per l’orizzonte finito del linguaggio di consumare il nucleo infinito dell’individuo, che è ineffabile.

Con WDilthey siamo invece di fronte ad una versione in un certo senso positivista dell’ermeneutica: la vita dell’uomo è una mediazione tra il mondo interiore e le oggettivazioni dello spirito nel mondo esterno (cultura, società). L’interpretazione è l’interazione tra diversi tipi di spirito e la vita stessa ha in sé una struttura ermeneutica. Lo psicologismo di Dilthey cede alla tentazione positivista, cioè alla pretesa di penetrare una vita psichica estranea e di abbattere la distanza temporale che divide l’uomo da un’espressione storica dello spirito oggettivo. Il risultato è una singolare forma di storicismo ingenuamente antistoricistico: la conoscenza acquisita dalla storia vorrebbe accreditarsi di una certezza scientifica senza riflettere su se stessa. Ciò sarebbe possibile solo nel caso in cui il soggetto conoscente fosse del tutto privo di interessi pratici e strumentali.

FNietzsche confuta questa posizione affermando (in opposizione al positivismo) che non esistono fatti nudi, ma solo interpretazioni non oggettive, in quanto il soggetto indossa una serie infinita di maschere.

La radicalizzazione ontologica dell’ermeneutica (iniziata con il romanticismo e con Schleiermacher) viene fatta propria da MHeidegger, che nella sua polemica con Husserl, asserisce che il soggetto situato nel mondo non fa che “interpretare”, per cui le stesse “descrizioni” non sono altro che interpretazioni. Secondo Heidegger, Nietzche conducendo la sua riflessione ad un conflitto di interpretazioni ridotto a un campo di scontro tra forze contrapposte, porta a compimento la volontà di potenza celata all’interno di tutta la storia della metafisica occidentale.

L’“ermeneutica” diventa il passaggio dall’epistemologia (tesa alla ricerca di un fondamento strettamente legato alla volontà di potenza) all’ontologia (la scienza dell’essere).

Heidegger, a tal proposito, considera il circolo ermeneutico non come “impasse”, ma come fenomeno filosoficamente produttivo, perché rivela l’aspetto interpretativo di ogni conoscenza (anche quella scientifica). Tale circolo, dunque, non è vizioso, ma virtuoso, in quanto è condizione di possibilità dell’asserzione: la verità si dà solo nell’interpretazione.

2. L’ermeneutica filosofica da Gadamer ad Habermas

L’evoluzione dell’ermeneutica successiva ad Heidegger è tesa a rielaborare, contestare e moderare la radicalizzazione operata da Nietzsche e da Heidegger stesso.

A tal proposito, Hans George Gadamer (Marburgo 1900-2002) grande umanistastorico e filosofo, si propone un’opera di mediazione storica tra pensiero radicale e tradizione filosofica, tra linguaggi e discipline diverse, tra i testi tramandati e i posteri. Gadamer si chiede se la verità fa parte della sola metodologia scientifica o sorpassa tale ambito e afferma che l’ermeneutica opera nella continua mediazione fra “storia e verità”.

L’esperienza ermeneutica, dunque, non presenta né il soggettivismo dell’esperienza estetica romantica né l’oggettivismo delle scienze positivistiche, ma rappresenta l’integrazione tra passato e presente, calata nella globalità dell’esperienza umana, e parte dal presupposto che l’interpretazione è un compito infinito e che (contraddicendo Hegel) è impossibile che il pensiero sia completamente trasparente a se stesso.

La distanza temporale tra l’accadimento dei fatti e la loro interpretazione assume un valore centrale: è la dimensione storica, infatti, a porre le condizioni dell’ermeneutica.

Scrive Gadamer in Verità e metodo: «Un pensiero autenticamente storico deve essere consapevole anche della propria storicità. Solo così esso non si ridurrà a inseguire il fantasma di un oggetto storico […] ma sarà un modo di riconoscere ciò che è altro da sé, riconoscendo, con l’altro, se stesso».

Se Bacone riteneva ingiustificati tutti i pregiudizi (gli idola), Gadamer propone invece di considerarli come limiti in positivo, ovvero condizioni della nostra possibilità di conoscenza che rientrano nel cd. “circolo ermeneutico” e che illuminano verso la verità.

L’essere è “linguaggio” e la dialettica, piuttosto che chiudersi nella scienza, si risolve nel “dialogo”, operazione in cui il soggetto si apre agli altri e opera una fusione di orizzonti diversi di pensiero.

Il luogo privilegiato ove opera l’ermeneutica è proprio il linguaggio.

Jacques Derrida (1930-2004), contrariamente a Gadamer, non punta l’attenzione sul “dialogo”, ma sulla scrittura, uno spazio in cui la comprensione perviene ad un’oggettività libera dall’intenzionalità soggettiva del linguaggio verbale.

Per Derrida la volontà di potenza nietzcheana ha rotto la continuità della tradizione storica e dunque ha reso impossibile la mediazione gadameriana tra storia e verità.

La scrittura dunque non autocertifica la tradizione, ma, al contrario rende possibile un’interruzione, un’epoché della tradizione da cui possa muovere un’interpretazione più consapevole.

Ne La farmacia di Platone, il filosofo francese descrive il potere del testo scritto di disvelarsi ad ogni nuova lettura: «Un testo è un testo solo se si nasconde la primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione e la regola del suo gioco. […]

La dissimulazione della tessitura può impiegare secoli a disfare la propria tela. La tela che avvolge la tela. Secoli per disfare la tela. […] Rigenerando indefinitamente il proprio tessuto dietro la traccia tagliente, la decisione di ogni lettura. Riservando sempre una sorpresa all’anatomia o alla fisiologia di una critica che credesse di dominare il gioco, di sorvegliare contemporaneamente tutti i fili illudendosi anche nel voler osservare il testo senza toccarlo, senza metter mano sull’“oggetto”, senza arrischiarsi ad aggiungervi, unica possibilità di entrare nel gioco impigliandovisi le dita, qualche nuovo filo

Paul Ricoeur (Valence – France, 1913-2005) associa il concetto di interpretazione a quello di simbolo, e cioè la sintesi di espressioni molteplici in cui l’uomo condensa i momenti significativi della propria esistenza e tradizione.

C’è una interpretazione dove c’è senso molteplice, e la pluralità di sensi si manifesta nell’interpretazione. Ricoeur non passa, come fa invece Heidegger, direttamente dalla comprensione all’ontologia, ma propone un percorso più lungo che passi attraverso le scienze umane. Il filosofo francese si propone, infatti, di far coesistere la spiegazione con la comprensione, che è un atteggiamento tipico dell’approccio filosofico.

Dialogare con le “scienze” diventa, per Ricoeur, una condizione imprescindibile alla sopravvivenza della filosofia; l’ermeneutica, quindi deve conciliare le due istanze: scienza e filosofia sono stadi diversi di un unico percorso.

Una critica dialettica dell’ermeneutica contemporanea viene da K. O. Apel e da J. Habermas i fautori dell’etica del discorso e della responsabilità per definire i compiti della razionalità e dell’etica del dovere.

Per Habermas, la critica della scienza non deve risolversi nella riabilitazione dei pregiudizi, ma deve puntare all’emancipazione, mentre l’ermeneutica rimane a metà strada e finisce per portare alla subordinazione del pensiero e della prassi alla tradizione.

Habermas è l’alfiere dell’agire comunicativo che si traduce nell’“etica del discorso” affermando il contrasto fra il «mondo della vita» (quello della quotidianità dei valori condivisi) e il sistema dell’agire umano che spinge l’individuo:

  • ad agire razionalmente;
  • risolvere le questioni pratiche sempre con il consenso degli altri;
  • ad assicurare in ogni azione la sopravvivenza del genere umano.

Per Karl Otto Apel, invece, si tratta di navigare tra un’ermeneutica relativistica che si autodissolve e una critica oggettivistica che non si impegna in un colloquio reale.

Mentre l’ermeneutica presuppone un testo dotato di senso compiuto che la tradizione dispiega, la pragmatica trascendentale di Apel presuppone la comunità illimitata della comunicazione capace, in linea di principio, di intendere chiunque argomenti e che sia un ideale tessuto connettivo per la comunità reale dei ricercatori.

In Italia, l’ermeneutica ha avuto tra i suoi massimi studiosi Luigi Pareyson (1918-1991), il quale ha definito la verità stessa come un contenuto sottoposto inevitabilmente ad interpretazione. Per il filosofo italiano, la verità non si disvela, ma è frutto dell’attività interpretativa dell’uomo, che la indaga dalla sua prospettiva individuale, storica e soggettiva. La tensione verso la conoscenza viene allora continuamente limitata dalla finitezza e dalla contingenza proprie dell’esistenza umana.

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