Di cosa parleremo
Siamo in pieno Ottocento e il neonato Regno d’Italia, tra l’estasi indipendentista e i primi segnali di patriottismo, si trova ai ferri corti con una serie di problemi, interni e non, in un inevitabile confronto il cui esito determinerà la sopravvivenza ed il prestigio del Paese.
Divisioni interne, popolazioni eterogenee, culture da convergere, un Sud incredibilmente in ritardo; instabilità economica dopo onerose politiche di guerra, la ricerca di credibilità estera, e un’unificazione ancora non conclusa.
Si è fatta l’Italia, ora è giunto il momento di mantenerla, e la strada è tremendamente in salita.
Timeline
- 1861: viene proclamato il Regno d’Italia, la Destra Storica sale al potere;
- 1862: Battaglia dell’Aspromonte, è bloccato il tentativo di Garibaldi di marciare su Roma;
- 1862: Grande Brigantaggio, repressione militare nel Sud ed istituzione della Legge Pica;
- 1864: Convenzione di Settembre, l’Italia assicura la difesa su Roma in cambio del ritiro delle truppe francesi dal Papato;
- 1866: Terza Guerra d’Indipendenza, l’Italia combatte al fianco della Prussia contro l’Austria; nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, la guerra volge a favore di Prussia e Italia; annessione del Veneto;
- 1867: Battaglia di Mentana, Garibaldi e i suoi volontari vengono nuovamente bloccati dalle truppe regolari italiane;
- 1869: entra in vigore l’imposta sul macinato, suscitando grandi proteste in tutto il Paese;
- 1870: Guerra franco-prussiana, sconfitta francese; l’Italia approfitta del conflitto per prendere Roma e annettere il Lazio;
- 1874: Pio IX promulga il “Non Expedit”, dichiarando inaccettabile la partecipazione dei cattolici italiani alla vita politica del Regno d’Italia;
- 1876: è annunciato il pareggio di bilancio, obiettivo fortemente perseguito dal Ministro delle finanze Quintino Sella
1. Un Paese unito?
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”.
Massimo D’Azeglio, scrittore ed ex Primo Ministro del Regno di Sardegna, centrò decisamente il punto chiave che avrebbe accompagnato lo sviluppo dell’appena nato Regno d’Italia per i decenni a venire, e che per certi versi caratterizza ancora l’attuale Repubblica.
In effetti l’Italia, per quanto geograficamente e politicamente unita dal 1861, è sostanzialmente un miscuglio di popoli e tradizioni regionali, non solo per l’attaccamento a tradizioni e dialetti diversi tra loro, ma anche per uno scarso senso di vera unità.
Le condizioni sociali del Paese sono inoltre a dir poco pietose: povertà diffusa, nelle campagne dilagano fame e malattie di vario genere, il tasso di analfabetismo è alle stelle (74% al Nord, 86% al Sud), la mortalità infantile tocca la preoccupante quota del 20%, e quasi tutti i comuni italiani sono caratterizzati da un forte dissesto idrogeologico, fenomeno tutt’ora non scomparso.
Come se non bastasse, al Belpaese manca totalmente una forte base industriale, presente soltanto nelle aree dell’ex Regno di Sardegna e nei territori lombardi; l’80% degli italiani vive nelle campagne ed il 70% dei lavoratori è occupato nel settore agricolo, attività che incide per il 58% del PIL.
Si delinea infine il più grosso problema dell’appena nata monarchia, un fardello che il Paese si porterà avanti fino ai giorni nostri, segnando in misura indelebile lo sviluppo e il futuro della Penisola: la Questione Meridionale.
Era innegabile l’arretratezza del Sud, dovuta all’arcaico ordine precostituito dai Borbone, ancora fermo al latifondismo e ad uno pseudo-feudalesimo e mai attraversato in pieno dalla Rivoluzione Industriale, che invece colpì, benché in minor impatto rispetto alle grandi città europee, le aree del Nord, in cui industrie e aziende agricole moderne erano già ben presenti.
2. La Destra storica al potere
Il cammino italiano tra il 1861 e il 1876 fu caratterizzato da un’impronta politica conservatrice e liberale, che prese successivamente il nome di Destra Storica, così chiamata per il ruolo chiave che ebbe nello sviluppo del Paese (come successivamente fece anche la Sinistra Storica).
Contrariamente a quanto si può pensare, la Destra storica non fu un movimento nettamente di destra, o almeno non della destra di cui abbiamo concezione oggi.
Lo schieramento parlamentare era infatti il seguente:
- un ampio e dominante raggruppamento di Centro guidato dai moderati, eredi di Cavour, composto dalla Destra Storica, simbolo della borghesia liberale piemontese e tosco-emiliana, e dall’aristocrazia terriera del Sud;
- la Destra, composta dai clericali e da gruppi reazionari, oppositori di ogni tipo di progresso, riforma ed innovazione, sognando un ritorno al precedente assetto storico;
- la Sinistra, formata da mazziniani e garibaldini, caratterizzata da ideali progressisti, patriottici e repubblicani.
Su una popolazione di 22 milioni di abitanti, solo il 2% fu chiamata al voto, in base ai criteri di censo ed istruzione.
A causa di questa ristrettezza di cittadini aventi diritto, i partiti dell’epoca erano ben diversi da quelli odierni; detti “Partiti di Notabili”, erano diffusi in gran parte dei paesi europei durante l’Ottocento e simboleggiavano la limitata partecipazione della popolazione alla vita politica.
Per questa ragione furono partiti privi di un’organizzazione stabile, che promuovevano come propri rappresentanti individui le cui competenze e doti erano ben note socialmente, i notabili per l’appunto, che consideravano la politica alla stregua di un’attività accessoria, da manifestare soltanto in occasione delle elezioni e dei compiti parlamentari.
Essere o non essere (accentrati)?
Bettino Ricasoli, il Barone di ferro, secondo Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, si trovò di fronte ad un’importante scelta strategica, il cui proseguimento a lungo termine avrebbe fornito un assetto netto alle fondamenta del Paese:
- un’impostazione accentrata dello Stato, che prevedeva il controllo del Governo sugli enti locali, estendendo de facto il modello piemontese su tutto il territorio italiano;
- un assetto decentrato, con libertà amministrative e giudiziarie agli enti locali, ritenute più abili ad individuare problemi e punti d’intervento nella propria comunità.
Ricasoli optò per la prima scelta, ampliando il modello centrale dell’ex Regno di Sardegna su tutto il territorio nazionale, causando non poche proteste su tutto il Paese.
Il Governo venne accusato di piemontesismo, e non pochi iniziarono a considerare il Regno alla stregua dei vecchi occupanti.
Politica economica: l’apertura ai mercati e lo storico pareggio di bilancio
Le guerre di indipendenza e le ricostruzioni post-belliche costarono caro alle finanze del Paese, in costante deficit e con un rapporto debito/PIL pari al 40%; erano necessarie politiche aperte e liberiste, sull’onda della Prima Globalizzazione. Venne stabilita l’unificazione monetaria, doganale e fiscale del Paese (unificazione economica), e ad essa seguì una rigorosa politica di investimenti volta alla dotazione infrastrutturale italiana, in particolare strade, poste e la rete ferroviaria, essenziale come non mai per dotarsi di una certa sufficienza economica.
Fu applicato inoltre il libero scambio sia per le importazioni che per le esportazioni, e Quintino Sella, Ministro delle finanze, avviò un’intensa campagna di riforme economiche e di inasprimenti fiscali sui consumi e sui redditi, dedicando anima e corpo per raggiungere il pareggio del bilancio statale (raggiunto effettivamente nel 1876), in modo da far acquisire al neonato Regno credibilità all’Estero, attirando così investimenti nel territorio nazionale.
In particolare, tra i provvedimenti attuati i principali furono:
- vendita dei beni ecclesiastici e del demanio pubblico;
- applicazione di imposte dirette (che colpiscono direttamente la ricchezza, come le imposte sui redditi);
- applicazione di imposte indirette (che colpiscono la ricchezza solo nel momento in cui viene spesa, come la odierna IVA).
Tali politiche di Sella non furono particolarmente ben accolte dalla popolazione, in particolare l’imposta sul macinato, che causò numerose proteste in tutto il Paese.
3. Il grande Brigantaggio
Il Sud del Paese, già profondamente scosso dal fenomeno unitario e dalle differenze con il Nord, si trovò inoltre colpito da nuove imposte, dall’obbligo del servizio militare e da evidenti disparità di trattamento (quasi tutte le commesse statali furono aggiudicate alle grandi imprese del Nord Italia).
Questo portò progressivamente a rivolte sempre più corpose e violente, e il fenomeno del Brigantaggio; tuttavia, già diffuso nel Regno delle Due Sicilie, prese definitivamente piede: bande di briganti, stimolate dai Borbone, desiderosi di riscatto dopo l’umiliante incursione garibaldina dei 1000, iniziarono una guerriglia attiva contro lo Stato.
Va detto che la reazione dello Stato italiano fu tra le più violente inimmaginabili, con la distruzione totale di villaggi e lo sterminio dei suoi abitanti, in particolare le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, dopo alcune rappresaglie di briganti residenti in questi paesi ai danni dell’esercito.
Ancora una volta, Massimo D’Azeglio descrive in maniera lampante le forti problematiche interne della neonata monarchia:
“A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un Governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne (…) capisco che gli italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani, che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate”.
L’escalation fu netta: il Grande Brigantaggio si stava trasformando in una guerra civile, tanto da innescare al contempo un pericoloso terzo incomodo per l’equilibrio del Regno: Giuseppe Garibaldi.
Il celebre generale stava infatti progettando dal Sud Italia una marcia su Roma con un esercito di volontari, ma nel 1862 fu fermato nella battaglia dell’Aspromonte dalle truppe regolari del premier Rattazzi, il cui esecutivo della Destra Storica era profondamente contrario ad un attacco allo Stato Pontificio per paura della reazione francese, cattolica e schierata con il Papa.
Nello stesso anno venne istituito lo stato d’assedio nel Mezzogiorno, che durò fino a novembre; l’esercito italiano sbaragliò con repressione le bande di briganti reazionarie e il Governo emise la Legge Pica, un provvedimento che legalizzò la repressione e che sottopose l’intero Mezzogiorno alle leggi dei tribunali militari istituiti per l’occasione; de facto, un vero e proprio Regime militare.
La Destra decise di reprimere la violenza con altrettanta crudeltà, e anche dopo la risoluzione della crisi non prestò mai attenzione ai problemi sociali dietro alle rivolte; questo alimentò fenomeni di malavita organizzata (camorra e mafia) in tutto il Sud.
4. L’Unificazione: un compito non ancora concluso
Nonostante la proclamazione del Regno d’Italia, non tutte le terre irredente erano sotto il controllo dei Savoia.
Veneto, Trentino e Friuli-Venezia Giulia erano ancora sotto controllo austriaco, mentre Roma e tutto il Lazio sotto quello papale.
La questione con la Città Eterna era tutt’altro che semplice: fermato Garibaldi, la
Destra Storica, per paura della reazione della Francia, alleato troppo utile fino a quel momento per potervi rinunciare, firmò nel 1864 la Convenzione di Settembre, in cui si impegnò a difendere lo Stato Pontificio in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma.
Come ulteriore misura simbolica, la Capitale venne spostata da Torino a Firenze, causando non poche proteste (con tanto di vittime) nella città piemontese.
La politica verso i territori contesi con gli austriaci fu più agevole: in un contesto europeo segnato dal fallimento dei principi di equilibrio della Restaurazione e dalle guerre tra potenze all’ordine del giorno, l’Italia necessitava solamente la giusta occasione, che si presentò nel 1866, quando decise di affiancare la Prussia nella guerra contro l’Austria: comincia la Terza Guerra d’Indipendenza, il primo conflitto armato a cui la monarchia prese parte.
Il corso della Guerra fu tutt’altro che memorabile: gli italiani subirono importanti sconfitte a Custoza e Lissa, e solo l’intramontabile Garibaldi inanellò una serie di successi, avanzando nel Trentino.
Le vittorie della Prussia nel fronte settentrionale, tuttavia, risolsero la guerra in favore dell’alleanza italo-prussiana, e l’Austria fu costretta a cedere il Veneto alla Francia, svolgente un importante ruolo diplomatico, che a sua volta lo girò all’Italia, che ne ufficializzò l’annessione tramite plebiscito.
Il bottino di guerra evidenziò la limitatezza delle conquiste territoriali: niente Trentino, nonostante le conquiste di Garibaldi, che fu invece richiamato da Vittorio Emanuele II a ritirare le truppe (da lì la celebre frase del generale “Obbedisco”), né il Friuli-Venezia Giulia; questo e la consegna del Veneto solo mediante la Francia rappresentò uno schiaffo morale per l’Italia non indifferente, che uscì vincitrice ma non vittoriosa dal conflitto.
La presa di Roma
Mazziniani e garibaldini, nel frattempo, proseguirono la netta opposizione alla Destra Storica per le scelte di politica estera, progettando l’annessione di Roma al Regno; d’altra parte, nell’immaginario unitario non poteva esistere l’Italia senza Roma, era un simbolo troppo potente e troppo irrinunciabile per la sopravvivenza futura del Regno.
Garibaldi nel 1867 tentò una nuova incursione nella Città Eterna al comando del suo esercito di volontari, ma venne fermato dai francesi nella Battaglia di Mentana; fu l’ultima battaglia al comando di un esercito italiano per l’Eroe dei 2 Mondi, che in futuro avrebbe invece combattuto dalla parte dei francesi durante la Guerra Franco-prussiana del 1870; conflitto che ebbe un ruolo chiave anche per l’Italia.
La Prussia infatti sconfisse la Francia, decretando la fine di Napoleone III, del Secondo Impero Francese e di ogni forma di protezione della Francia sullo Stato Pontificio.
L’esercito italiano mosse quindi le armi contro il Papato ed entrò a Roma il 20 Settembre 1870, nella famosa Breccia di Porta Pia; Roma e tutto il Lazio vennero ufficialmente annessi al Regno d’Italia.
Il Governo italiano era ben consapevole dell’influenza della Chiesa sulla popolazione italiana, pertanto l’approccio verso il Vaticano fu diplomatico e garantista: al Papa vennero offerte le leggi unilaterali delle “guarentigie” (garanzie offerte dallo Stato italiano, come l’extraterritorialità del Vaticano), ma Pio IX le rifiutò categoricamente, opponendosi violentemente all’occupazione di Roma e promulgando il non expedit (“non conviene”, fu vietato ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana).
Le relazioni tra i 2 Paesi furono troncate sul nascere dal Vaticano, e tale attrito sarebbe perdurato per i decenni a venire. Questo provocò indirettamente anche una riduzione di potenziali figure cattoliche di livello nella scena politica italiana, in quanto caldamente invitate dalla Chiesa a non prendervi parte.
Un prezzo sicuramente alto da pagare, ma Roma era presa, e il Regno d’Italia ebbe la sua nuova Capitale.