1. La vita
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798, primo di cinque fratelli, appartiene alla nobiltà di provincia. Leopardi manifesta sin da piccolo un ingegno precoce. Già a dieci anni è in grado di scrivere composizioni in italiano, latino e anche piccole trattazioni filosofiche; impara da solo il greco e l’ebraico. Tra il 1809 e il 1816 si hanno quei sette anni di studio matto e disperatissimo dove l’autore si farà un suo pensiero a danno però del suo fisico che ne uscirà particolarmente compromesso. A questo periodo risalgono i primi componimenti: del 1813 è Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXI, del 1815 è Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: opere che saranno edite soltanto dopo la sua morte. Intorno al 1816 si colloca quella che lo stesso autore definisce “conversione letteraria”, ossia il passaggio dalla fase erudita e di studio a quella della composizione creativa. Dopo aver letto Foscolo, Goethe, Alfieri, Monti, prende posizione nella polemica tra Classicisti e Romantici, schierandosi sul fronte dei primi. In quel periodo affianca alle traduzioni la stesura di testi originali, come l’idillio Le rimembranze (1816), il Diario del primo amore (1817), l’Elegia I, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e le canzoni politiche All’Italia e Sopra il monumento di Dante (1818).
Il 1817 è un anno decisivo per Leopardi: a febbraio inizia la corrispondenza con il letterato Pietro Giordani; mentre, nell’estate, inizia a redigere lo Zibaldone, un’opera che contiene riflessioni personali, filosofiche e morali. Nel 1819 tenta una fuga da Recanati, spinto dal desiderio di sottrarsi alla noia, ma viene scoperto dal padre Monaldo; per di più, le sue condizioni fisiche peggiorano. In questo periodo anche la fede viene meno: avviene qui la “conversione filosofica”, e dunque l’adesione a una concezione prettamente materialistica e avversa a ogni credo religioso. Questo sentimento filosofico dell’infelicità umana esprime in questi anni i primi capolavori: le canzoni (Ad Angelo Mai, Bruto Minoree Ultimo canto di Saffo), che riflettono sul divario fra antico e moderno.
Nel novembre del 1822 Giacomo lascia Recanati per soggiornare alcuni mesi a Roma presso lo zio materno. Il progetto, però, viene meno e la sua permanenza nella città termina nell’aprile del 1823: cinque mesi segnati dalla falsità della vita mondana e corrotta. Al ritorno a Recanati si getta nuovamente nell’elaborazione filosofica e nella scrittura: nel 1824 compone il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e si dedica alla prosa filosofica con la composizione delle Operette morali. Nel luglio del 1825 lascia nuovamente Recanati e si dirige a Milano, dietro l’invito di Antonio Fortunato Stella, il quale lo impegna in alcuni progetti editoriali. Ne nasceranno un commento al Canzoniere di Petrarca e due antologie della letteratura italiana. Successivamente si trasferisce a Bologna dove frequenta Giordani; a Firenze dove conosce Stendhal, Manzoni e Antonio Ranieri, un giovane scrittore napoletano; e poi a novembre finisce per soggiornare a Pisa, dove vive il periodo più sereno della sua vita, confortato dal clima mite della città.
In questo periodo si apre una nuova stagione poetica: nell’aprile del 1828 scrive Il risorgimento e A Silvia, aprendo la stagione dei “grandi idilli” (chiamati anche “canti pisano-recanatesi). Questa fase poetica continua con il ritorno nella sua città natale e porta alla composizione di un altro gruppo di canti (Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Un gruppo di amici toscani lo invita di nuovo a Firenze, Leopardi accetta e nell’aprile del 1830 lascia Recanati dove non vi tornerà più. Tornato a Firenze, conosce Fanny Targioni Tozzetti, una nobildonna che accoglie letterati nel suo salotto della quale Leopardi si innamora. Per lei scrive tra il 1832 e il 1835 alcune canzoni: Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia, che formano il cosiddetto “ciclo di Aspasia”. Il sentimento da parte della donna per Leopardi non viene ricambiato, così, dopo la delusione, Giacomo lascia Firenze.
Tra il 1831 e il 1832 trascorre alcuni mesi con Ranieri a Roma. Subito dopo con lui, dopo una breve sosta fiorentina dove scrive gli ultimi due dialoghi delle Operette, nell’ottobre del 1833 si trasferiscono a Napoli, dove le condizioni di salute di Giacomo peggiorano giorno dopo giorno. Qui prendono avvio gli ultimi progetti letterari: la seconda edizione delle Operette morali e la stesura della Palinodia al marchese Gino Capponi e dei Paralipomeni alla Batracomiomachia. A rendere meno dolorose le sue sofferenze fisiche provvede anche Paolina, che si trasferisce a vivere con i due sulle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco dove Leopardi compone Il tramonto della luna e La ginestra. Tornato a Napoli si aggrava e infine muore il 14 giugno 1837.
2. Il pensiero e la poetica
Il pensiero di Leopardi approda ad alcuni nuclei concettuali: la ricerca del piacere, le condizioni di felicità per l’uomo, il rapporto esseri viventi-natura, evoluzione della civiltà umana. Leopardi in una prima fase del suo pensiero affronta l’infelicità umana, la quale non dipende dalla natura, anzi la natura è considerata come “madre benigna” perché ha offerto agli uomini la capacità di immaginare. L’infelicità dell’uomo è, dunque, un dato storico, frutto di una condizione storica (pessimismo storico 1819-1824). Giova sottolineare che Leopardi vede nel Cristianesimo il fattore principale che ha causato la decadenza della modernità.
Intorno al 1822 la posizione di Leopardi cambia: la natura si trasforma da benigna in matrigna, indifferente alle sorti dell’uomo; inoltre, Leopardi inizia ad acquisire un punto di vista ispirato al meccanicismo settecentesco: la causa dell’infelicità umana è indicata nel rapporto tra il bisogno dell’uomo di raggiungere la felicità e le possibilità di soddisfacimento oggettivo. Il male appare connaturato all’ordine naturale, è un dato costitutivo, non sono più le condizioni storiche a essere indicate come causa dell’infelicità (pessimismo cosmico 1824-1830); in questo periodo nasce la “teoria del piacere” elaborata a livello filosofico nello Zibaldone: il piacere per Leopardi consiste o nell’attesa o in una momentanea cessazione del dolore. Anche il piacere ha una natura materiale: consiste in una sensazione di vitalità delle passioni. L’uomo aspira naturalmente al piacere per sfuggire il dolore. Questa ricerca, altro non è che il desiderio, il quale per sua natura è illimitato e dunque destinato a non essere soddisfatto.
A partire invece dal Dialogo di Plotino e di Porfirio delle Operette si assiste ad una valorizzazione del momento sociale: Leopardi unisce la volontà di affrontare con coraggio le sofferenze dell’esistenza (pessimismo eroico 1830-1837). Lo sforzo degli esseri umani deve essere rivolto a soccorrersi reciprocamente: l’autore auspica una vita associata all’insegna della solidarietà. Gli uomini, consapevoli del male comune, devono unirsi per ridurre il più possibile il dolore di tutti gli uomini; la compassione è il vero movente poetico dell’intero sistema leopardiano che unisce gli uomini nelle sofferenze.
2.1. La memoria, il vago e il vero
Nella fase del “pessimismo storico” Leopardi lavora sul concetto di immaginazione: l’aspirazione al piacere può essere concretizzata proprio dalle sensazioni che solo la poesia può comunicare. In alcune parole dello Zibaldone Leopardi annota che alcune parole sono in sé “poetiche” perché destano idee indefinite e altre suggeriscono immagini vaghe. Nella sua ultima fase poetica egli accetta che si possa fare poesia riflettendo sul vero: Leopardi sperimenta un nuovo tipo di discorso poetico, rivolto al singolo individuo: la sua poesia, così, stabilisce un ponte con ciascun individuo.
2.2. Tra classicismo e romanticismo
Il rifiuto del Romanticismo riguarda il rapporto tra poesia e sensi. Leopardi, infatti, propone una poesia capace di servirsi dei sensi. Il classicismo leopardiano si fonda su questa condanna della modernità, la quale è segnata dal distacco dalla natura. Egli rifiuta quella poesia romantica fatta di effetti meravigliosi e scelte intellettualistiche; la poesia per lui deve, anzi, imitare la natura come facevano gli antichi. Infine, il classicismo che Leopardi accoglie è un classicismo non basato sull’imitazione di un repertorio, ma sulla consapevolezza che è ormai impossibile pensare come gli antichi.
3. La produzione in prosa
Lettere, saggi e discorsi, scritti memorialistici, autobiografici e filosofici: la produzione in prosa di Leopardi è ampia e articolata. Lo Zibaldone accoglie le annotazioni scritte dal 1817 al 1832, rivelando i molteplici campi di interesse dell’autore e l’evoluzione del suo pensiero. L’opera non nasce come uno scritto per il pubblico, anzi unisce appunti sulle proprie letture, meditazioni filosofiche, pagine di diario intimo e prettamente autobiografico, riflessioni sulla vita, questioni linguistiche, morali e letterarie.
Il termine Zibaldone è un alterato di “zabaione” e indica una pietanza composta da una mescolanza di ingredienti diversi. Il carattere frammentario dell’opera sottolinea anche l’asistematicità di tutto il suo pensiero: rifiuta ogni schema fisso e ordinario, la prosa è spontanea e ricca di sospensioni. Rappresenta il campo privilegiato per indagare il pensiero dell’autore e la sua evoluzione.
La prima edizione delle Operette morali esce nel 1827 e comprende 20 prose (nell’edizione definitiva e postuma del 1854 saranno 24). Permeate da un profondo pessimismo materialistico, esse indicano al lettore la verità che la vita ha rivelato all’autore: la debolezza e l’infelicità degli uomini, la morte come cessazione della sofferenza, il meccanicismo dell’esistenza. Il diminutivo “operette” ben si lega al carattere ironico del testo; la prospettiva “morale” invece si definisce come esplorazione della natura dell’umanità e delle cose. Il linguaggio dello scritto mantiene una sintassi complessa: il poeta sperimenta soluzioni linguistiche differenti, uno stile speculativo e non retorico.
I Pensieri sono 111 prose incentrate sulla filosofia e sulla politica, pubblicate postume da Antonio Ranieri nel 1845, intorno alla quale si snoda la riflessione critica dell’ultimo Leopardi. Si tratta di aforismi di varia lunghezza (da poche righe a una pagina) dedicata soprattutto all’analisi della dimensione sociale dell’uomo, non senza consapevolezza della propria contemporaneità.
Infine, di Leopardi ci restano 931 lettere indirizzate ai familiari (soprattutto al padre, al fratello Carlo e alla sorella Paolina), ma anche a personalità intellettuali dell’epoca, come Pietro Giordani, Vincenzo Monti, Giovan Pietro Vieusseux, Bunsen, De Sinner; grazie a queste possiamo ricostruire la vita interiore dell’autore e le sue esperienze. Egli è il primo scrittore italiano che rinunci a fare delle lettere private un momento di autorappresentazione pubblica; prevale, al contrario, la finalità immediata e personale della comunicazione con il destinatario.
4. I Canti
Culmine dell’intera attività letteraria di Leopardi, l’opera vede la prima edizione nel 1831 (23 liriche). Saliranno a 41 nel 1845, alla pubblicazione delle opere complessive dell’autore curata da Ranieri. I Canti non sono un libro a tema, ma organizzano tutto ciò che Leopardi ha ritenuto fosse valido nel suo percorso.
L’opera si struttura in nuclei precisi:
- le canzoni civili e filosofiche (1818-1822), componimenti legati tra loro dalla comune tematica patriottica, mostrando indignazione per la decadenza morale dell’Italia; Leopardi si presenta come poeta civile e, inoltre, testimonia anche la sua volontà di confermarsi come autore classico. Il primo gruppo di testi (canzoni civili) comprende le canzoni All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Nei testi successivi riflette sul singolo individuo nella sua universale umanità, il poeta acquista consapevolezza che il dolore costituisce una condizione esistenziale. Le cosiddette “canzoni filosofiche” sono: Bruto minore, Alla Primavera, Inno ai patriarchi, Ultimo canto di Saffo;
- i piccoli idilli (1819-1821), i cui componimenti sottolineano la diversità dei temi (più intimi e autobiografici). Il termine idillio significa “quadretto”, egli offre infatti la rappresentazione di un aspetto del mondo esterno. I “piccoli idilli” sono cinque: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria. Leopardi in queste poesie ricerca parole capaci di evocare i piaceri dell’immaginazione attingendo al campo semantico del ricordo e dell’amore;
- i grandi idilli (1828-1830), i cui componimenti si caratterizzano per il superamento dei toni tragici. Questi, detti anche “canti pisano-recanatesi”, sono: Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e Il passero solitario (quest’ultimo nell’edizione napoletana del 1835 verrà premesso dall’autore ai “piccoli idilli”). In queste poesie i temi sono il ricordo della giovinezza e la nostalgia di una felicità perduta;
- il ciclo di Aspasia e i canti napoletani, i cui componimenti appartengono all’ultima fase della poesia leopardiana e alternano le riflessioni dal disinganno amoroso all’analisi della società. Il cosiddetto “ciclo di Aspasia” comprende: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. Al soggiorno napoletano appartengono infine le “canzoni sepolcrali”, incentrate sul tema della morte, e le ultime poesie scritte tra il 1835 e il 1837: Palinodia al marchese Gino Capponi, Il tramonto della luna, La ginestra o il fiore del deserto.
5. Analisi dei seguenti testi
ULTIMO CANTO DI SAFFO
METRO: canzone libera composta da 4 strofe di 18 versi, di cui i primi 16 sono endecasillabi sciolti e gli ultimi 2 un settenario e un endecasillabo a rima baciata.
TESTO
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa.Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’altra notte, e la silente riva.
ANALISI
La canzone presenta un suicidio esistenziale: a parlare in prima persona è Saffo, poetessa greca del VII-VI secolo a.C. che secondo una leggenda si era innamorata di un giovinetto di nome Faone e, non ricambiata, si uccise gettandosi dalla rupe di Leucade. La Saffo che Leopardi presenta in questo canto non è storicamente attendibile, ma non è l’esattezza storica che il poeta ricerca; egli vuole, piuttosto, incarnare in lei una visione filosofica: Saffo è un simbolo dell’universalità del dolore.
v. 1 apostrofe alla luna, personificata con caratterizzazione pudica e casta.
v. 2 tu è il pianeta Venere, la stella del mattino, noto anche come Lucifero.
v. 8 noi è plurale maiestatis (sta per “me”).
v. 11 il Noto per i Romani era il vento che spira da Sud, qui indica i venti in generale.
v. 12 grave: pesante (latinismo).
v. 20 rorida: rugiadosa (latinismo).
v. 23 non fenno: non fecero.
v. 36 odorate per “profumate” è aggettivo tipico del linguaggio di Leopardi (tornerà nella Ginestra).
v. 43 riferimento classico attraverso il termine Parca: qui Lachesi, una delle tre divinità (insieme a Cloto e Atropo) che filavano il filo della vita umana.
v. 47 negletta dal latino neglectus significa trascurata, dimenticata, lasciata in abbandono.
v. 55 morremo, citazione virgiliana riferita a Didone, altra eroina suicida per amore: Moriemur inultae. / Sed moriamur, “Morremo invendicate. Ma moriamo!” (Aen. IV, vv. 659-660).
v. 58 tu si riferisce a Faone, mitico traghettatore dell’isola di Lesbo, amato da tutte le donne, Saffo compresa.
v. 63 doglio: il vaso di cui parla Omero (Il. XXIV, vv. 527-530) che contiene la felicità, custodito da Giove.
v. 69 palme: “vittorie”.
v. 70 Tartaro: regno dei morti.
v. 71 tenaria Diva: Proserpina è detta “tenaria” da Capo Tenaro (nella regione greca della Laconia), considerato dagli antichi la porta degli Inferi.
assonanze “raggio”, “fato”, “carro”, “capo”, “alto”.
anafore “noi” ai vv. 8, 14, 15; “bella” v. 21.
anadiplosi “arcano” v. 46; “carro” vv. 11-12; “sembianze” vv. 50-51; “felice” v. 61.
enjambements vv. 15-16; vv. 16-17; vv. 20-21; vv. 34-35; vv. 57-58.
L’INFINITO
METRO: quindici endecasillabi sciolti.
TESTO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
ANALISI
La poesia parte dalla percezione di un limite: al poeta, solo sul monte Tabor a Recanati, una siepe impedisce allo sguardo di vedere l’orizzonte. Il testo non descrive e non racconta fatti specifici, ma si presenta come la rivelazione di un momento intimo della vita spirituale del poeta; sensazioni vaghe e indefinite suscitano piacere, perché mettono in moto l’immaginazione e permettono di superare i limiti della realtà (“teoria del piacere”).
v. 1 ermo: termine della tradizione lirica, sta per “solitario”.
v. 5 di là da quella: oltre la siepe.
v. 7 fingo: latinismo che significa “plasmo”, “creo” con l’immaginazione.
v. 8 il come ha valore temporale: “quando”, “non appena”.
v. 9 stormir: soffiare producendo un fruscìo (parola di registro elevato).
v. 12 le morte stagioni: le epoche passate.
v. 15 l’immagine del naufragio dolce rende l’idea di un annullamento di sé dove si realizza il piacere, una sorta di estasi.
enjambements vv. 4-5; vv. 5-6; vv. 9-10; vv. 13-14.
parole polisillabiche orizzonte, interminati, sovrumani, profondissimo, infinito, comparando, immensità, naufragar.
deittici nei versi iniziali “questo” è il segnale della realtà oggettiva, “quello” distingue invece quello che si immagina; tuttavia, alla fine, la siepe (“questa” del v. 2) diventa “quella” del v. 5.
vaghezza espressiva l’autore fonde oggetti concreti (il colle, la siepe, le piante) e immagini cosmiche (spazi, silenzi, immensità): l’effetto è quello di una ricercata indeterminatezza.
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
METRO: 46 endecasillabi sciolti.
TESTO
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
ANALISI
Questo idillio affronta il motivo dell’estraneità del poeta ai piaceri della giovinezza. La sera del dì di festa alterna il confronto con un intenso paesaggio notturno dominato dalla luna e dalla distanza indifferente della donna amata e la riflessione sull’immensità del passato perduto.
v. 1 eco letterario di Il. VIII, v. 555. Inoltre, giova sottolineare la presenza al v. 1 della sinestesia e dell’ossimoro.
v. 6 lampa: lampada.
v. 9 cura è un latinismo, sta per “preoccupazione”.
v. 14 speme: speranza
v. 21 chieggo: mi domando.
v. 24 verde etate: età giovanile.
v. 26 riede: torna.
v. 34 il grido: il ricordo, la fama.
v. 45 premea le piume: giacevo nel letto (l’espressione ricorre frequentemente nella tradizione lirica italiana).
enjambements vv. 3-4; vv. 8-9; vv. 11-12; vv. 14-15; vv. 25-26; vv. 30-31; vv. 31-32; vv. 33-34; vv. 34-35; vv. 35-36; vv. 38-39.
anafore “tu dormi” v. 7 e v. 11; “or dov’è” vv. 33-34.
climax “mi getto, e grido, e fremo” v. 23.
A SILVIA
METRO: canzone libera composta da sei strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.
TESTO
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
ANALISI
Fa parte dei canti pisano-recanatesi dove Leopardi celebra il riaccendersi dell’ispirazione poetica. A Silvia è il primo esempio, nella poesia leopardiana, di canzone libera. Silvia sembra doversi identificare con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi poco più che ventenne. Il tema riporta alla giovinezza recanatese, rievocata con tenerezza e abbandono. Il rivelarsi tragico della verità, con la morte di Silvia, suscita il rammarico del poeta nei confronti della natura, crudele ingannatrice degli uomini.
v. 1 rimembri: termine di registro elevato e letterario, sta per “ricordi”. Il verbo “rimembrare” deriva dal provenzale remembrar, corrispondente all’antico francese remembrer. In versioni precedenti Leopardi aveva scelto “sovvienti” e “rammenti” invece di rimembri.
v. 4 ridenti e fuggitivi: luminosi e sfuggenti, la “fuga” evoca un topos delle donne della tradizione poetica (da Laura ad Angelica); inoltre, il riso degli occhi è una tipica immagine dantesca.
v. 5 pensosa: assorta, in coppia ossimorica con il precedente lieta.
v. 7 quiete, è un aggettivo di registro elevato del latino quietus, “tranquillo”: quièto è l’esito dotto, mentre chéto è quello popolare.
v. 10 per opre femminili si intende la tessitura, come chiarirà il v. 22.
v. 13 maggio odoroso, cioè profumato per la primavera (maggio è il mese poetico per eccellenza). Per alcuni studiosi l’espressione ha una valenza realistica, poiché Silvia morirà a Settembre.
v. 14 menare cioè condurre.
vv. 15-16 gli studi leggiadri sarebbero gli studi di poesia italiana; le sudate carte (metonimia), invece,l’apprendimento delle lingue antiche (in particolare latino e greco).
v. 19 paterno ostello è espressione ariostesca (Orlando Furioso, XVIII, 73, v. 5).
v. 20 porgea gli orecchi: ascoltavo. Inoltre, la desinenza -a per la prima persona singolare dell’imperfetto era comune nell’Ottocento (si veda anche “mirava” v. 23 e “sentiva” v. 27).
v. 29 cori: cuori, cioè affetti.
v. 41 chiuso morbo: si tratta della tisi, una malattia che non aveva dato segni; la malattia è chiusa poiché agisce all’interno del corpo.
v. 44 molceva: latinismo per “lusingava”.
v. 47 teco: con te.
v. 48 ragionavan rinvia al lessico della lirica cortese, utilizzato nell’accezione di “conversare”.
v. 51 negaro cioè negarono.
v. 54 cara compagna è apposizione di speme (speranza) del verso successivo.
v. 62 ignuda: nuda e spoglia.
rime la rima più frequente è quella in -ivi alternata a quella in -evi: si tratta spesso di desinenze di verbi all’imperfetto, che sottolineano il perdurare della memoria.
assonanze “mortale-limitare”, “core-chiome”, “rimembri-ridenti”.
allitterazioni “avvenir-avevi”, “odoroso-dorate-orti-percorrea-mortal”.
simbolismo emerge tra la primavera del maggio profumato e l’inverno (verno v. 40) che contiene tutti i suoni del “vero”.
gioco anagrammatico tra Silvia (v.1) e salivi (v. 6).
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA
METRO: canzone libera di sei strofe, ognuna chiusa da una rima in -ale.
TESTO
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
ANALISI
Composto tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia introduce a parlare un uomo vissuto lontano dalla civiltà occidentale. In un colloquio notturno con la luna e in una riflessione sulla propria vicenda, il pastore formula varie ipotesi di senso, giungendo infine ad una rappresentazione pessimistica della vita. Il desiderio di ricevere una risposta dalla natura (simboleggiata dalla luna) si contrappone all’indifferenza dell’universo.
vv. 1-2 Che fai… luna: l’incipit è petrarchesco (Canzoniere, CL, v. 1) ed è incorniciato dalle anafore di “che fai” e di “luna”. Silenziosa è pentasillabico.
v. 5 paga: aggettivo di registro elevato, sta per “soddisfatta”, ed è participio passato breve del verbo “pagare”.
v. 11 sorge: la luna sorge, contempla, si posa; il pastore nello stesso modo sorge, vede, si riposa (parallelismo tra la luna e il pastore). Questo verso e il successivo presenta assonanze in o ed e.
v. 18 con a voi la domanda viene estesa a tutti gli astri del cielo.
vv. 19-20 il viaggio esistenziale dell’uomo è breve, mentre il percorso della luna è eterno (antitesi).
v. 21 è ripreso il “vecchierel canuto et biancho” di Petrarca (Canzoniere XVI, v. 1).
vv. 26-27 quando avvampa l’ora (in enjambement): l’espressione indica la stagione estiva e rovente (metonimia).
vv. 35-36 abisso orrido… obblia: climax.
vv. 59-60 contrapposizione tra la luna (non mortale) e lo stato umano.
v. 81 in suo giro lontano sta per “all’orizzonte”.
v. 86 facelle indica “piccole fiaccole”; facelle dal latino fax, «fiaccola» è voce dantesca.
vv. 87-89 le domande sono ordinate in climax ascendente; i versi, inoltre, presentano un chiasmo e due enjambements.
vv. 117-122 l’opposizione tra la condizione del gregge e quella del pastore è messa in luce dall’anafora di «e pur».
v. 135 noverar: contare.
vv. 139-143: l’ultima strofa presenta l’anafora di «forse», di «più felice» e di «erra».
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
METRO: canzone libera composta da tre strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.
TESTO
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
Se te d’ogni dolor morte risana.
ANALISI
Finito il temporale la natura si rasserena e con essa anche gli uomini che riprendono le consuete attività. Successivamente subentra una riflessione sulla natura effimera del piacere, cessazione momentanea del dolore che caratterizza la vita.
v. 2 augelli: forma poetica per “uccelli”.
v. 5 erompe da ovest, dalla parte dei monti.
v. 7 appare-valle: assonanza. La prima versione di questo verso aveva “splende” in luogo di “appare”.
v. 20 per li poggi e le ville: sulle colline e sui loro casolari.
vv. 22-23 lontano può essere inteso sia come avverbio sia come aggettivo di tintinnio.
v. 32 piacer figlio d’affanno esprime la tesi del canto secondo cui il piacere è figlio del dolore.
v. 35 paventò: temette.
v. 36 abborria: detestava.
v. 42 o natura cortese: invocazione alla natura (ricorre di frequente in Leopardi).
vv. 45-46 uscir… fra noi: uscir di pena indica “liberarci dal dolore”; inoltre, lo stesso concetto era stato espresso in un’Operetta morale (Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).
v. 49 mostro è latinismo per prodigio ed è sinonimo del successivo miracolo.
v. 52 ti lice (latinismo in rima interna con felice del v. 51) sta per “ti è consentito”, “ti è permesso”.
v. 54 risana: guarisce. Anche questo concetto trova corrispondenza nelle Operette morali (Dialogo di Plotino e Porfirio).
sensazioni sonore il canto dell’artigiano (vv. 11-12); il grido giornaliero dell’erbivendolo (vv. 16-18); il tintinnio di sonagli del carro del viandante (vv. 23-24).
iterazioni “ogni… ogni” v. 8; “sentiero… sentiero” v. 17; “ecco… ecco” v. 19; “apre… apre” vv. 20-21.
termini Leopardi accosta termini letterari (augelli, femminetta, piova, nembi, lice) e quotidiani (gallina, artigiano, balconi).
IL SABATO DEL VILLAGGIO
METRO: canzone libera di quattro strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.
TESTO
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
ANALISI
La composizione viene pubblicata come ultimo testo nella prima edizione dei Canti (1831). Si può confrontare Il sabato del villaggio con La quiete dopo la tempesta con la differenza che nella prima poesia il piacere è inteso come attesa di un godimento futuro, come vigilia di una festa, speranza e illusione; mentre nell’altra il piacere è visto come cessazione provvisoria di un dolore.
v. 1 donzelletta: giovinetta, contadinella (termine che rinvia alla tradizione arcadica).
v. 4 Pascoli nel 1896, in una conferenza intitolata Il Sabato, sottolineò un presunto errore di indeterminatezza da parte di Leopardi dal momento che le rose fioriscono a marzo e le viole a maggio; è probabile, però, che Leopardi abbia voluto accostare due fiori di diversa stagione per creare di proposito un effetto vago e indeterminato.
v. 6 si appresta: si prepara (dal latino volgare *apprestare, derivato di praesto, «a portata di mano».
vv. 8-9 l’immagine deriva da Petrarca, Canzoniere XXXIII, v. 5: «levata era a filar la vecchierella».
v. 10 incontro là dove si perde il giorno: rivolta a occidente, verso il tramonto.
v. 11-15 novellando vien è anastrofe. In questi versi predomina il suono e (donzelletta, vien, erba, reca, appresta, festa, petto, vecchierella, siede, perde, snella, bella) che comunica speranza.
v. 16 imbruna: diventa più scura.
v. 17 torna in anafora.
v. 20 la squilla: la campana della chiesetta di Montemorello, di fronte a palazzo Leopardi che suona il vespro prefestivo con cui comincia la messa della domenica.
vv. 24-27 il vociare dei bambini è enfatizzato dalle assonanze in o e a: «gridando», «piazzuola», «frotta» (che sta per in gruppo), «saltando», «fanno».
v. 28 riede: ritorna.
v. 29 la figura dello zappatore è letteraria, discende dal Canzoniere di Petrarca, L, vv. 18-22: «l’avaro zappador l’arme riprende […] e poi la mensa ingombra / di povere vivande».
v. 30 seco: tra sé.
v. 31 face: lume.
v. 34 legnaiuol: falegname.
v. 39 speme: speranza.
v. 41 per travaglio usato si intende il lavoro consueto, settimanale; ma anche le angosce della vita quotidiana.
v. 43 garzoncello scherzoso, fanciullo spensierato e allegro: come «donzelletta» e «vecchierella» è un altro diminutivo.
v. 44 età fiorita: la giovinezza (metafora). L’espressione trova eco in Petrarca, Canzoniere 278, v. 1. Con il verso successivo formula una similitudine.
vv. 45-47 come il sabato precede il giorno della festa, così la fanciullezza precede la giovinezza. Il termine festa indica “la maturità” (metafora); d’allegrezza pieno è, invece, anastrofe.
v. 50 altro dirti non vo’: preterizione.
enjambements vv. 4-5; vv. 33-34; vv. 40-41.
iperbati vv. 6-7; vv. 41-42; 50-51.
A SE STESSO
METRO: strofa libera di sedici versi endecasillabi e settenari.
TESTO
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta ormai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.
ANALISI
Scritto probabilmente nel maggio del 1833 quando Leopardi si trova a Firenze (l’autografo non ci è pervenuto, quindi la datazione è incerta), concentrato in sedici versi, è l’appello finale del poeta al proprio cuore a non dare più importanza ai sentimenti, che sono pure illusioni. La fine dell’amore per Fanny Targioni Tozzetti coincide con una disillusione senza scampo riguardo al senso dell’esistenza. Al linguaggio del vago dovrà necessariamente subentrare il linguaggio del vero, che caratterizza l’ultima fase della poesia leopardiana.
v. 1 poserai sta per riposerai e ha valore esortativo come posa, t’acqueta (che sta per calmati), dispera, disprezza dei versi successivi.
vv. 2-3 è venuta meno l’ultima illusione (l’amore per Fanny); estremo… eterno è una paronomasia.
v. 4 cari inganni: dolci illusioni.
vv. 6-7 assai palpitasti sta per “hai sofferto abbastanza”.
vv. 9-10 il soggetto è la vita e va sottinteso il verbo è.
vv. 11-12 dispera l’ultima volta: smetti per sempre di sperare (giova segnalare che dispera a fine verso è intensificata anche dalla paronomasia con disprezza al v. 13); gener nostro sta per “la specie umana”.
vv. 14-15 il brutto poter… a comun danno impera: è il potere della natura, vista da Leopardi come un’entità maligna e identificata con Arimane, divinità persiana del male, al quale il poeta dedica nel 1833 l’abbozzo di un inno; questo dio può essere contrastato solo con un atteggiamento di sprezzante superiorità e di eroica tensione. Si noti che ascoso è aggettivo con valore avverbiale.
v. 16 tutto in rima con brutto del v. 14.
enjambements vv. 6-7; vv. 7-8; vv. 8-9; vv. 11-12; vv. 12-13; vv. 13-14; vv. 14-15.
linguaggio del vero sempre, spento, mai, nulla, ultima volta, omai.
anafore “poserai per sempre… Posa per sempre” vv. 1 e 6; “perì” vv. 2-3; “omai” vv. 11 e 13.
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO
METRO: canzone libera composta da sette strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.
TESTO
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
(Giovanni, III, 19)
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d’or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
ANALISI
La ginestra, nata nell’ultimo anno di vita del poeta durante il soggiorno in una villa sulle falde del Vesuvio, trova posto soltanto nell’edizione postuma curata da Antonio Ranieri (del testo non ci è pervenuto l’autografo, ma solo tre copie di mano di Ranieri), andando a collocarsi come conclusione effettiva dei Canti. Il componimento è una sorta di testamento spirituale da consegnare ai posteri: l’autore si appella all’umanità affinché abbandoni ogni orgoglio e si unisca contro la natura, sua vera nemica, costruendo una rete di solidarietà reciproca. Leopardi sembra ora interessato piuttosto a prendere posizione nel dibattito vivo e attuale della società italiana e sceglie il paesaggio desolato del Vesuvio come luogo-simbolo della condizione umana sulla terra. La poesia presenta in epigrafe un versetto evangelico (Giovanni, III, 19) che allude alla difficoltà con cui la verità si fa largo tra gli uomini, i quali preferiscono illudersi di cose false (le tenebre) piuttosto che prendere coscienza di cose vere (la luce) ma dolorose.
v. 2 il termine formidabil sottolinea il carattere minaccioso del vulcano, dal latino formido, “timore”.
v. 3 Vesevo latinismo per Vesuvio (lat. Vesevus).
v. 4 la qual null’altro allegra arbor né fiore: iperbato.
vv. 7-13 la grandezza del passato è descritta con un linguaggio ricco di arcaismi e latinismi per esempio donna, latinismo dal sostantivo domina, “padrona”; al v. 9 cittade vede sottinteso “Roma”.
v. 29 gradito ospizio: nella pianura campana, nei tempi antichi, sorgevano le case di villeggiatura dei romani benestanti. Per città famose si intendono probabilmente Pompei, Ercolano, Stabio e altre città distrutte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
v. 31 ignea: infuocata (latinismo).
vv. 32-33 or tutto… involve: l’espressione è tratta da Petrarca, canzone All’Italia (Canzoniere, LIII, v. 35): «e tutto quel ch’una ruina involve».
v. 34 fior gentile: la ginestra è descritta come fiore profumato, che consola le sofferenze.
v. 44 dura nutrice: la natura.
v. 48 il verbo annichilare è ormai una variante rara del verbo “annichilire” e che significa “ridurre al nulla”; in senso figurato “umiliare”.
v. 51 le magnifiche sorti e progressive: il tono dell’espressione è sentenzioso ed è una ripresa della dedica degli Inni Sacri di Terenzio Mamiani, cugino di Leopardi, che descrive in questo modo il progresso spirituale dell’umanità.
vv. 52-53 con secol superbo e sciocco l’autore si riferisce al XIX secolo e al Romanticismo dove, secondo Leopardi, c’è stato un regresso intellettuale rispetto al periodo dell’Illuminismo. Inoltre, giova sottolineare l’anafora colonnale del qui (vv. 1 e 52).
v. 53 risorto pensier: il Rinascimento.
vv. 72-77 la “libertà” è uno dei valori principali del pensiero romantico, in chiave sia spirituale, sia letteraria, sia politica. L’espressione libertà vai sognando ricorda quella dantesca «libertà va cercando» (Purg. I, 71) dove Virgilio spiega a Catone il fine del viaggio oltremondano. Giova segnalare anche l’anafora di sol… solo… sola ai vv. 74-76.
v. 80 tergo: schiena.
v. 81 lume: Illuminismo. Questo verso insieme al precedente spiega il versetto di Giovanni posto in epigrafe.
v. 86 estolle: innalza.
v. 88 dell’alma è complemento di limitazione: “quanto all’anima”.
v. 95 noma: definisce.
vv. 105-108 orbe: terra (latinismo); fiato d’aura maligna: epidemia; sotterraneo crollo: terremoto.
vv. 112-114 a sollevar… fato: l’espressione trova eco nel poeta latino Lucrezio, primo libro del De rerum natura dove Epicuro viene elogiato dall’autore per aver contemplato la verità senza temere la religione.
v. 124 rea: colpevole.
v. 125 la natura è madre perché fa nascere le sue creature e matrigna perché le ignora appena esse sono al mondo; si noti nel verso la costruzione a chiasmo.
v. 128 in pria: fin dal principio.
v. 130 confederati: alleati.
vv. 138-139 qual fora: come sarebbe; cinto d’oste: assediati dai nemici.
v. 154 le superbe fole sono le favole, le credenze religiose sull’origine divina del mondo e dell’essere umano.
vv. 155-157 probità del volgo: onestà intellettuale dell’umanità; probità è un sostantivo di registro elevato, derivato dall’aggettivo probus, «onesto», era in origine usato in riferimento alle piante.
vv. 159-160 a bruno è il colore della lava; flutto indurato è invece il corso indurito della lava. Al v. 160 Leopardi utilizza una metafora marina dal momento che la lava sembra ondeggiare.
v. 171 a cui: agli astri.
vv. 174-183 nodi quasi di stelle: nebulose; essi si riferisce alle galassie. Si veda in questi versi la tecnica dell’accumulazione; una sintassi ipotattica; stelle in anafora; la presenza di iperbati. Lo scopo è quello di rallentare il ritmo di questa strofa poetica, dove Leopardi offre una vera e propria prospettiva cosmica.
v. 187 il suol ch’io premo cioè quello del Vesuvio.
vv. 202-226 la similitudine apre la quinta strofa riportando la prospettiva dal cielo alla terra: come una mela matura che, cadendo dall’albero, schiaccia un formicaio, così un’eruzione vulcanica annienta le città degli uomini (Pompei, Ercolano e Stabia che sorgevano lungo la costiera napoletana). Diserta sta per distrugge; notte e ruina, “oscuro e tenebroso”, è un’endiadi; aspergea è un verbo di registro elevato, spesso usato con riferimento a un rito di purificazione.
v. 238 varcàr: trascorsi.
v. 253 bollor è metonimia per lava. Mergellina ai tempi di Leopardi era un sobborgo a nord di Napoli.
v. 264 il nido metafora della casa sottolinea la debolezza della condizione umana.
v. 268 durabilmente: per sempre.
vv. 269-271 gli scavi archeologici iniziati nel 1748, per volontà di Carlo III di Borbone, riportarono alla luce le rovine di Pompei.
v. 277 il bipartito giogo cioè la doppia vetta: il Vesuvio e il monte Somma.
v. 283 nella prima strofa abbiamo trovato il serpente e il coniglio; nella quinta la capra; adesso il pipistrello: unici animali che popolano le pendici del Vesuvio.
v. 284 face: fiaccola.
v. 297 l’ultima strofa torna con una costruzione circolare a parlare della ginestra per chiarirne il significato a livello simbolico.
v. 301 sotterraneo foco: lava.
v. 305 non renitente: senza opporti; inoltre, si veda renitente in rima con innocente del verso successivo.
vv. 307-317 indarno: inutilmente. Inoltre, giova segnalare l’anafora del “ma” in questi versi funzionale per sottolineare la diversità del fiore rispetto al comportamento umano: la ginestra è, infatti, più saggia dell’uomo perché umile e nonostante tutto continua ad adornare i luoghi solitari.
enjambements vv. 2-3; vv. 8-9; vv. 14-15; vv. 25-26; vv. 30-31; vv. 35-36; vv. 41-42; vv. 45-46; vv. 74-75; vv. 103-104; vv. 108-109; vv. 113-114; vv. 121-122; vv. 122-123; vv. 134-135; vv. 150-151; vv. 164-165; vv. 186-187; vv. 194-195; vv. 223-224; vv. 243-244; vv. 246-247; vv. 250-251; vv. 270-271; vv. 275-276; vv. 287-288; vv. 292-293; vv. 308-309.
climax schiaccia, diserta e copre (v. 211); di ceneri e di pomici e di sassi (v. 215); di liquefatti massi / e di metalli e d’infocata arena (vv. 220-221); confuse / e infranse e ricoperse (vv. 224-225).